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sabato 31 agosto 2013

Università Panafricana /Da progetto a realtà molto prossima

Sono stati stanziati per la cultura, in questi giorni, ben 45 milioni di dollari da parte della Banca africana di Sviluppo. E questo è avvenuto d’intesa con la Commissione ad hoc dell’Unione Africana (UA) per concretizzare, nel continente, la realizzazione dell’Università Panafricana. E’ un progetto, questo dell’Università Panafricana, ideato e messo su carta, all’incirca dieci anni fa, allo scopo di riuscire coordinare la crescita culturale dell’intero continente. Sempre secondo l’intento degli estensori. Se non saranno promesse illusorie e, magari, non ci saranno conseguenti ruberie di denaro, opera delle solite “mani leste”, che non mancano mai sotto ogni cielo, l’obiettivo degli ideatori e redattori si può dire che è quasi raggiunto. Nell’ ottobre scorso un polo universitario è stato già aperto a Yaoundé, capitale del Camerun per quanto riguarda gli utenti dell’Africa centrale. E sono in programma, per il prossimo anno accademico, corsi universitari a Ibadan, in Nigeria, a Nairobi (Kenya) e poi,molto probabilmente, in Algeria e in Africa australe, le cui sedi sono ancora da definire. Le materie di studio andranno dalla geologia all’idrogeologia ,all’approfondimento delle possibili applicazioni delle energie rinnovabili. Questo nel settore strettamente scientifico. Per le scienze umane, invece, si cureranno particolarmente le tecnologie della comunicazione, indispensabili per l’inserimento del mondo del lavoro ai nostri giorni.//(m.m.)

Il sapore perduto della mia gioventù /La Poesia degli altri

Cerco un vecchio/ un vecchio che vendeva colori/ vicino ad un museo./ Cerco un vecchio un vecchio che vendeva sogni/ ad un bambino curioso./ Trovo chiuso … / Tutto chiuso … / Ti ho cercato troppo tardi/ Ho aspettato troppo / Forse sei partito … / Ed io ora sono un uomo,/ ma mi sforzo di non pensare / dove potrei cercarti … / Tutto mi sfugge/ e la tavolozza dei colori ad olio / che tu mi hai insegnato ad usare / cade dalla mia mano tremante./ Francesco Marcucci Pinoli -Agosto 2013

Nel tempo del Sogno.Un prete tra gli aborigeni (La Fontana di Siloe editrice-2012) / Ossia "nonsolo Africa"

Il libro di lettura del mio fine settimana conta, questa volta, meno di cento pagine e porta me, con raffinata immaginazione e tanta poesia del cuore, ancora più lontano del mio amato continente africano. Racconta infatti, in forma romanzata di un prete trentino, Angelo Confalonieri (1813-1848), realmente esistito, primo missionario cattolico, disponibile nell’obbedienza a recarsi per espletare il suo mandato tra gli aborigeni australiani. Dopo essersi salvato quasi per miracolo da un naufragio certo, il religioso inizia il suo lavoro sul campo che è l’anno 1846. E, poiché amare un popolo è amarne soprattutto la lingua e la cultura, il nostro, che condivide la difficile quotidianità degli aborigeni, inizia gradualmente a compilare una raccolta di frasi, i cosiddetti “frasari”, ancora oggi interesse di studio per gli addetti ai lavori. Accanto a Confalonieri c’è un’altra figura molto importante, che è il comandante della postazione militare di Port Essington, tale John MacArthur, il quale lo collabora parecchio sul piano pratico tutte le volte che si presentano o possono sorgere inconvenienti. Il nucleo centrale del racconto è, tuttavia, il rapporto tra il religioso e il militare e le interminabili loro conversazioni. Entrambi, a contatto con il mondo culturale degli aborigeni hanno visto e vedono, inevitabilmente, entrare in crisi alcune loro personali e radicate certezze. E sarà la”Parola”, che è “parola di vita “ per tutti, se saputa “leggere”, che li sosterrà e darà significato alle rispettive esperienze.// (m.m.)

venerdì 30 agosto 2013

Somalia / Imprescindibile la stabilità politica per il suo sviluppo a breve

Tutto il mondo guarda con simpatia agli sforzi del nuovo governo politico somalo e concorre a sostenerlo, come può, e a renderlo il più possibile esente da assurde conflittualità anche interne, in quanto è auspicabile che il Paese, la Somalia, ritorni, dopo anni e anni difficilissimi, ad essere terra di pace sociale e d’investimenti redditizi. Inciampo su questo percorso si era frapposto, come ben sappiamo, giorni addietro, il caso di “ Kismayo”, città strategica, rivendicata nella spartizione territoriale dalle regioni del Basso e Medio Juba e di Gedo (Stato federale del Jubaland) e, finalmente, risolto dopo lunghe discussioni che è poche ore, ad Addis Abeba (Etiopia), in sede UA (Unione Africana). Ciò significa che Kismayo (porto e aeroporto) rimarrà solo per sei mesi sotto la gestione del governo centrale somalo, com’è adesso, per poi passare sotto le direttive di un organismo specifico, i cui componenti saranno nominati a febbraio prossimo. Nel mentre la giornata del 16 settembre, a Bruxelles (UE), si prenderanno in esame e si discuterà della validità di alcuni progetti e di finanziamenti opportuni per la Somalia . Nulla è facile laggiù in situazione (è quello che ci dicono gli osservatori di “cose” somale), anche se questa opzione per Kismayo, in un quadro complesso, ha senz’altro del positivo, perché è noto che il parlamento di Mogadiscio è bloccato da troppi mesi e la creazione di un apparato di sicurezza stenta parecchio a decollare. Mentre sappiamo bene, per l’uno e per l’altro, quanto una loro funzionalità efficiente sarebbe necessaria. //(m.m.)

giovedì 29 agosto 2013

" Persino il mare muore..." /La Poesia degli Altri

Persino il mare muore/ Disse Garcia Lorca/ Piangendo un altro./ Ma io non mi consolo/ Per la morte del mare/ Bianchi gabbiani gridano/ Rauchi e penetranti/ Chiamandosi l’un l’altro / In archi impazziti / Sul mare melodioso./ Sei certo che morirà?/ Che prova esiste/ Per dimostrarlo,/ Forse che non si muove, non appare / Alla nostra piccola visione?/ No, strillano i gabbiani/ Con il loro senso selvaggio, Noi che l’amiamo più di tutti / Sappiamo che la sua morte sarà certa e tremenda / Perché noi moriremo con lui. // Ruth Miller (poetessa sudafricana)

Minatori bambini in Tanzania /Lo riferisce Human Rights Watch

In questo mese d’agosto, ci dicono gli astronomi, che si è accesa nel cielo una stella nella costellazione del Delfino e che essa è visibile, ricorrendo all’utilizzo del binocolo, appena poco prima della mezzanotte. Il suo nome è “Nova”. Ma le stelle, anche “Nova” quindi, non brillano mai a quell’ora per accompagnare i sogni fantasiosi di tanti bambini del Tanzania, pesantemente addormentati sulle lacere stuoie nelle modeste abitazioni del loro villaggio o in una catapecchia di città, dove la convivenza è quasi sempre difficoltosa. Questi, cui è stata strappata da subito l’infanzia e con essa il piacere dei giochi e il diritto all’istruzione, che non hanno neanche dieci anni (forse l’età s’aggira intorno agli otto), si levano, ogni mattina, che il sole non è ancora del tutto sorto, per andare a lavorare, sotto padrone, nelle miniere d’oro del Paese. Quelle stesse miniere, che poi fanno ricche le società appaltatrici e i maggiorenti del luogo e titillano tutte le possibili e immaginabili vanità di un Occidente ancora per poco benestante. Lo riferisce un rapporto della Ong statunitense “Human Rights Watch”. E il rapporto sottolinea inoltre che quanto accade nelle miniere visitate,per il momento solo in numero di undici, contraddice platealmente le leggi internazionali sul lavoro per quel che concerne le forme di sfruttamento, che sono state sottoscritte, a suo tempo, anche dal Tanzania. E, sempre il rapporto, precisa la pericolosità per la salute (avvelenamento), facendo riferimento alle quantità consistenti di mercurio con cui i piccoli minatori sono costantemente a contatto nelle fasi di separazione del pregiato minerale dagli scarti. La notizia è arrivata anche sui media locali ma si dubita, e fortemente, che qualcosa possa cambiare nel giro di poco tempo. Esiste nel Paese, una forma lieve di censura, che tanto lieve non è , e che non permette né alla stampa, né alle emittenti radiofoniche e/o televisive di affrontare eventuali contraddittori su verità scomode. Il Tanzania è il quarto produttore d’oro del continente africano. Questo è ciò che conta per la politica governativa. E le sue esportazioni procedono così tanto alla grande che, secondo la Banca Centrale di Dar es Salaam, nel 2013 (documentazione alla mano) hanno superato il valore di un miliardo e 800 milioni di dollari. I minatori bambini possono aspettare. Innanzitutto il “profitto”. // (m.m.)

mercoledì 28 agosto 2013

L'acquario / Spazio Poesia

Pesce pagliaccio/ sognatore indomito/ di mari lontani/ bella creatura / dai superbi colori/ regale natante/ ti scorgo/ che stai/ da troppo/ ormai/ fuori contesto/ e intorpidito / prigioniero di / un acquario/ di lusso che/ che è arzigogolo / di umani cervelli/ e in un non-luogo/ esemplare demarcazione/ tra l’ essere e il non essere./ Frangi, allora, quel vetro/ (per favore) e salvati./ Un’esistenza mesta / non t’appartiene./ L’oceano –mare chiama./ (m.m.)

La ribellione dell'Amistad insegna /Una lettura per affilare le armi del coraggio e dell'intelligenza

Una volta, anni ’70 del secolo appena trascorso, “vacanze intelligenti” era lo slogan per l’estate, esibito da chi non volesse scegliere vacanze di massa allo scopo di potersi differenziare dai tanti comuni mortali. Oggi che gli italiani (intelligenti e no) è già tanto se, in questi mesi estivi, sono arrivati a potersi concedere un paio di giorni di stacco dalla consueta routine del lavoro e della casa, c’è una lettura, che è utile, in situazione, e che consiglierei, nei momenti di pausa, al posto della visione della trita, melensa e soporifera tv. Mi riferisco alla vicenda storica dell’Amistad, la nave negriera nella quale gli schiavi destinati al Nuovo Mondo, nel lontano ‘800 si ribellarono, ammutinandosi agli schiavisti, per conquistare la propria personale libertà. Un’attenta lettura dell’episodio storico e dei suoi protagonisti può insegnarci, probabilmente, ancora qualcosa. E questo giacché esistono anche oggi, molto vicine a noi, forme di asservimento ad un sistema politico-sociale, che ci fa navigare da troppo tempo in “zona” grigia senza mai intravedere approdo. E sarebbe ora, io dico, di smetterla con la passività. Per accertarsene basta chiedere un po’ in giro ai giovani trentenni (e magari a qualcuno anche con qualche anno di più) con tanto laurea in tasca, ben conseguita ma senza l’ombra di uno straccio di lavoro. E , poi, come se non bastasse, c’è persino il furbastro o i furbastri di turno, che speculano sulle povertà emergenti, che non sono poche. Questi attizzano il fuoco, a ogni pié sospinto, e mettono,se i grulli ci cascano, italiani e immigrati gli uni contro gli altri con tendenziose e allarmistiche notizie. Ma ritornando al libro di Markus Redker, edito che è pochi mesi dalla Feltrinelli, esso, un po’ romanzo e un po’ saggio, ci conduce, indietro nel tempo, a una notte senza luna del lontano giugno 1839, quando l’equipaggio della goletta “Amistad”,tutti africani venduti e destinati alle piantagioni d’America, si ammutina e prende interamente il controllo dell’imbarcazione. Questi stessi uomini,centrato l’obiettivo, credendosi nell’immediato liberi, cercano poi un porto sicuro. Invece finiscono prigionieri nel Connecticut, catturati dalla marina statunitense. Il positivo della storia è che grazie ad una lunghissima ed estenuante battaglia legale, essi riescono ad ottenere in seguito la libertà tanto agognata e, per giunta, grazie a una sentenza della Corte Suprema, che farà epoca. E, da quel momento in avanti, ci sarà per molti di loro anche il ritorno in Africa. Non occorre qui dilungarsi sulla disumanità della tratta degli schiavi e del commercio triangolare (Africa-Europa-Americhe),tutti aspetti che in qualche modo conosciamo per averne letto sui manuali scolastici, semmai c’è da apprezzare la ricerca storiografica di Redker, l’autore, relativa alle fonti africane. Essa ci consente di sapere parecchio di quale pasta d’uomo fossero questi ribelli e di che valenza fosse il loro coraggio per essere usciti vincitori da una disputa giuridica , impensabile per i tempi. Tempra e coraggio di questi uomini è quanto occorrerebbe anche a noi, politicamente oggi, per provare a uscire da una certa forma di apatia rassegnata, che non fa bene proprio a nessuno. Né ai giovani e giovanissimi, né a quelli che non lo sono più e che trascinano un’esistenza da sconfitti senza aver cercato di usare le armi. Quelle dell’intelligenza, almeno. Buona lettura allora e, soprattutto, a lettura ultimata, buoni propositi. Leggere è sempre e comunque un “crescere”.//(m.m.)

martedì 27 agosto 2013

Monti Nuba (Sudan) /Dove la scuola è promozione umana

E’ un “qualcosa”, l’assunto del titolo, su cui dovrebbero interrogarsi e riflettere i nostri studenti. Specie quelli con poca buona volontà. E farlo, considerando che siamo in prossimità dell’apertura delle scuole. Settembre non è neanche troppo lontano e il ritorno nelle aule e sui banchi, che piaccia o meno, non tarderà. E sarà meglio per tutti fare della scuola uno strumento di promozione piuttosto che il solito guscio vuoto, di cui lamentarsi in proposito o a sproposito. E la scuola appunto sta per ritornare anche nel quotidiano delle comunità dei Monti Nuba, nel continente africano, in cui l’ esistenza personale, che tu sia giovane, vecchio o bambino, è a rischio continuo da molto tempo. Sono condizioni di vita , quelle delle popolazioni nubiane, che a noi occidentali, coccolati nelle nostre comode case, farebbero e fanno, se avessimo la ventura di trovarci laggiù, accapponare la pelle. La guerra tra l’esercito sudanese e i ribelli del Movimento di liberazione del Sudan-Nord (Splm/N) non consente tregua . Coglie a tradimento persino il più smaliziato degli uomini. Preme inesorabilmente, togliendo il respiro e tormenta la povera gente , per lasciare da troppi anni, sul terreno, soltanto morti da seppellire e feriti da curare. Il clima impietoso ci pensa, poi, a fare il resto. C’è siccità e, con essa, inevitabilmente fame. Tanta fame. Ecco, allora, che la disperazione, in una situazione del genere, per giunta continuata, non potrebbe che essere alle stelle. Ma il popolo Nuba, un popolo bello e fiero, mostra coraggio e non si arrende mai. E, semmai ,cerca in fretta l’antidoto, riuscendo, nonostante tutto, ancora a tirare fuori un sorriso. Per riempire gli stomaci si è pensato allora, e con un po’ di speranza di riserva, ad esempio, agli appezzamenti di terreno, quelli che sono più vicini alle abitazioni, tutti da trasformare in orti. E questo per poterli governare meglio insieme ai pochi animali da cortile (per chi li ha), facili da gestire, che forniscono, al bisogno, carne e uova. Per l’acqua, si sa, le donne provvedono, sempre loro, scarpinando a piedi nudi per chilometri. Rischi inclusi a loro carico. E sappiamo, anche qui, di che genere di rischi si tratta. Ma la cosa più importante di tutte, cui tengono ,senza riserve, genitori e figli di queste comunità dei Monti Nuba è la scuola. Il poter frequentare la scuola è, oltretutto, segno di prestigio sociale. La scuola significa sapere leggere e scrivere. La scuola è cultura (informazione attuale e conoscenza del proprio passato) ma è anche possibilità di apprendere un mestiere utile a potersi costruire in seguito un futuro dignitoso e mettere su famiglia con certe garanzie. E per garanzie s’intende il non essere costretti a migrare né all’interno del continente, né tantomeno all’estero. Con l’aiuto della diocesi di El Obeid accade appunto, ed è di questi ultimi mesi (per cui siamo felici di riferirlo), che alcune suore comboniane, di rientro in quell’area tormentata, si stiano impegnando a riaprire, nell’ampio territorio delle differenti e più importanti comunità dei Monti Nuba, sia le scuole primarie (tre per la precisione in diverse località raggiungibili dai più) che un istituto d’istruzione secondaria. E, ancora, l’apertura di un altro istituto che sarà predisposto, esclusivamente, alla formazione degli insegnanti. Per le popolazioni è una bellissima notizia anche se i genitori di chi potrà permettersi di frequentarle sanno bene che ci saranno ulteriori gravami economici sull’intera famiglia tra tasse scolastiche e spesa per la divisa. Perché lo studiare in Africa costa. E costa, come ben sappiamo, parecchio anche. Ecco , allora, che ciò (il sacrificio degli adulti) sarà per la gioventù nubiana una spinta aggiuntiva a fare necessariamente bene. I nostri giovani invece, i virgulti debolucci di casa nostra,tutti diritti e quasi niente doveri, di cui facciamo quotidiana esperienza quando c’imbattiamo in essi, e ci degnano con tollerante sufficienza della loro attenzione, i quali questi valori li hanno già messi ben bene al riparo nel dimenticatoio, vista l’aria che attualmente soffia (il nostro Paese e l’Europa tutta sono un po’ in panne), farebbero bene, forse, a disseppellirli e ad aprire, a partire dall’autunno prossimo, qualche libro di più. Che ne dite? L’esempio “estremo” dei nubiani può essere calzante allo scopo sempre, però, se si hanno occhi aperti e orecchie, che hanno intenzione di ascoltare.// (m.m.)

lunedì 26 agosto 2013

Bressanone (Bz) /Congresso internazionale di Teologia cattolica /Migranti e stanziali in Europa / Ricerca di dialogo

Dal 29 agosto al 1 settembre si terrà nella cittadina di Bressanone, in Alto Adige, il Congresso internazionale di Teologia cattolica, il cui tema centrale sarà : Dio, il linguaggio religioso, i linguaggi del mondo. Ne dava notizia e ne argomentava in merito, su il Sole24Ore di ieri, Bruno Forte, teologo di chiara fama e attuale arcivescovo emerito della diocesi di Chieti-Vasto. Forte, napoletano colto e dialetticamente raffinato come pochi, che conosciamo da sempre, per averlo seguito nella sua attività di studioso, attraverso conferenze, giornate di studio e pubblicazioni, mette subito, e occorre dirlo giustamente, l’accento sulla compresenza inevitabile ormai nella nostra Europa di più confessioni religiose con cui confrontarsi e convivere nella quotidianità. E questo per noi, i nostri figli, i nostri nipoti. Il tutto dovuto ai continui e ripetuti movimenti migratori di persone, di differente sesso ed età, in provenienza da altre nazioni o, addirittura, come ben sappiamo (e sono i più) da altri continenti. Ed è qui il problema da porre in analisi in cerca di una possibile agevole soluzione (ciò che faranno senza dubbio gli studiosi partecipanti al congresso di Bressanone) specie se non si vuole affrontare, e molto a breve, un’ennesima crisi, accanto a quelle già in corso, come la politica, la finanziaria, l’economica che, da sole già bastanti, non consentono sonni tranquilli ai più. E cioè sarebbe fondamentale provare a contenere una crisi di valori di umana convivenza se si tiene conto, accanto al sopra detto, per di più, di tantissime posizioni agnostiche, che ultimamente si sono sempre più diffuse nel nostro continente e, quindi, anche nel nostro Paese. Inevitabilmente poi moltiplicate, a dirla tutta, dalla caduta delle ideologie, mutatesi in ideologismi di scarsissimo peso. Il teologo Forte auspica, nei singoli contesti,nonostante le scontate differenze, la creazione di più presupposti adeguati per avviare un dialogo tra credenti e non credenti in Dio. E lo fa con un’articolata e ricca esposizione di contenuti miranti alla finalità prioritaria che è l‘abbattimento di ogni possibile muro in fieri. Un Dio, non necessariamente cristiano, ma Creatore di tutte le cose. Umanità compresa, sopratutto. Ecco a Chi guardare. Ecco da Chi partire. Per il nostro, credenti o non credenti, la questione di Dio è ineludibile a meno che , egli aggiunge, non si decida di rinunciare a pensare. Che la fede sia un rischio ce lo ricorda Pascal ,con la famosa scommessa. Ma Forte non manca di portare numerosi altri esempi , che vanno dal danese Kierkegaard (quello de “Il diario di un seduttore”) al grande mistico del Siglo de oro spagnolo, che è San Giovanni della Croce, per il quale la tenebra della fede è addirittura luminosa. E cita anche una poetessa italiana da tempo dimenticata, che è Ada Negri. Credenti e non credenti ,egli dice, s’incontrano comunque (a meno che non parliamo di non credenti superficiali, con il cervello dato all’ammasso) perché la fede in Dio non è mai una risposta tranquilla ai nostri interrogativi di uomini e donne. Tutto sta (e questo colpisce particolarmente nell’esposizione del teologo-vescovo ) a saperLo seguire (Dio) sulla via del dono (dono di sé) e dell’abbandono fiducioso, accettando di amarLo dove e come Lui vorrà. E attenzione :tenere sempre a mente, insomma, il “dove “ e il”come”. Poiché ciò vale, nostro malgrado, per tutti (il senso della vita non differisce per alcuno), ecco che il punto d’incontro è proprio qui. Nell’incontro, in questo genere d’incontro, la creazione di un clima di autentica pace diviene possibile. È con esso, pertanto, l’abbattimento di ogni fumosa barriera, che impedisce di riconoscere nell’altro, quale che sia il colore della pelle, la sua lingua o la sua cultura, un fratello o una sorella. E si dà un taglio, finalmente, a quella fede statica, abitudinaria, fatta d’intolleranza. Si accoglie, si accetta, si condivide, si ama il proprio “prossimo” proprio nella sua diversità. Il vero nodo da sciogliere, dice Forte, non è probabilmente tra credenti e non credenti ma tra pensanti e non pensanti. Un’affermazione terribile, a ben rifletterci. Ecco perché il mondo va male, ci bacchetta il pensatore Forte, perché noi abbiamo smesso di pensare. Per la politica (la crisi infinita e i tentativi di soluzioni rabberciate, destinate allo scacco) è la stessa cosa. E come per la fede così per la politica non si può fare finta che siano un “non problema”. Pena il baratro sociale e la caduta esistenziale dell’intera umanità. Il trionfo della disumanità. Non ci prendiamo, allora, per il naso da soli è da concludere. Cerchiamo di lavorare tutti e tutti insieme per il dialogo. La pace, in questo modo, ha parecchie probabilità di esserci. // (m.m.)

domenica 25 agosto 2013

Saggezza dell'anziano e astuzia del giovane sono un mix vincente /Il Griot racconta

Un giorno, al termine della stagione delle grandi piogge , nel nostro consueto villaggio africano, al leone, superbo re della foresta, saltò in mente un’ idea balzana, che si premurò subito di comunicare alla sua amica iena. E cioè, secondo lui, sarebbe stato il caso di eliminare, quanto prima, dal villaggio tutti gli animali ormai avanti negli anni e, sicuramente, malandati. E la iena, che era una ruffiana cerimoniosa di mestiere coi potenti e molto interessata, approvò all’istante la proposta del suo re. Il primo cui fu fatta l’ingiunzione di uccidere l’anziana madre fu lo sciacallo. Il poverino scongiurò in tutti i modi il leone di non mettere in atto il nefando proposito ma non ci furono parole abbastanza convincenti anche perché fu proprio il leone, il primo, a dare il buon esempio. Invitò lo sciacallo a pranzo e lo fece banchettare con le carni di sua madre, l’anzianissima leonessa. E poi, ovviamente, pretese il contraccambio di lì a pochi giorni. Lo sciacallo, però, non si diede per vinto e si consultò con l’anziana madre per mettere in piedi un possibile piano di salvezza. Un piano che andasse bene anche per tutti gli altri animali anziani e, quindi, in pericolo di vita. Ci sono nascondigli segreti nella zona- gli disse la madre- e tutti gli animali, probabili vittime, dovevano assolutamente nascondersi lì fino a nuovo ordine. Lo rassicurò. E,infatti, così fecero tutti. Il leone fu effettivamente invitato dallo sciacallo a banchettare, come promesso. E gli furono propinate carni di ippopotamo putrefatto e puzzola al posto di quelle che sarebbero dovute essere della mamma dello sciacallo. E il leone, soddisfatto, nonostante fossero disgustose, si accomiatò contento d’essere stato obbedito. Quella che ebbe l’idea più brillante di tutte fu, tuttavia, una lepre vanitosetta ma astuta. Ella, compresa la gravità della situazione, una mattina, si agghindò di tutto punto con un abito elegantissimo e, poi, con accessori da fare invidia anche a un cieco, si recò a passeggio al mercato con lo scopo di farsi notare. E lì incontrò niente di meno che la moglie del nostro leone, che pose mille domande, stupita com’ era dell’eleganza e ricercatezza della lepre. E la lepre le risponse, chiaro e tondo, che solo suo marito, il leone , avrebbe potuto accontentarla in merito.Con qualche sacrificio, naturalmente. Di ritorno a casa, allora, la leonessa minacciò il leone di abbandonarlo se non si fosse sacrificato abbastanza per lei e le avesse procurato subito abiti e gioielli sfarzosi come quelli della lepre. Il leone, che in fondo, è un minchione, si recò immantinente dal fabbro del villaggio per privarsi dei suoi denti e delle sue unghie. Se li avesse venduti a buon prezzo, e con il ricavato comprato abiti e gioielli, non avrebbe corso il rischio di perdere la sua amata compagna. Purtroppo non fu proprio così in quanto nessuno , a cose fatte, volle saperne di acquistare nulla dal leone. E il tutto avvenne proprio come aveva architettato l’astuta lepre. Insomma il nostro leone si ritrovò ugualmente senza la sua leonessa, che lo abbandonò,sdegnata e insoddisfatta. Gli anziani animali, invece, furono tutti salvi. E poterono finalmente uscire dai rispettivi nascondigli senza timore alcuno. Il leone, senza artigli e senza denti, era ormai un essere disarmato e innocuo, che non faceva più paura a nessuno. Inoltre il consiglio dell’anziana madre dello sciacallo e la “furbata” della lepre avevano sortito il loro benefico effetto. E questo era quello che contava.//(m.m.)

sabato 24 agosto 2013

Quel "portaritratti" sulla scrivania/ Note (diciamo ) di "Missione"

Ad apertura dell’ultimo numero di “Missioni Consolata” (agosto-settembre), e mi riferisco al cartaceo, che mi arriva abbastanza puntuale per posta (ma gli amici di Jambo Africa possono visionarne l’edizione online su Facebook), esattamente a pag 5, campeggiano, questa volta, due bellissime foto di padre Benedetto Bellesi, missionario della Consolata, abile e infaticabile giornalista nonché grande appassionato di fotografia (ha lavorato fino all’ultimo come ci ricorda l’attuale direttore della rivista, padre Anataloni) oltre che persona, in modo speciale, di serena e, soprattutto, seria spiritualità. Io l’ho conosciuto. E ne piango la scomparsa. Padre Benedetto, infatti, come i più sanno, ci ha lasciati che non è neanche due mesi (la mattina del 3 luglio). Egli è stato chiamato, un po’ troppo frettolosamente (io direi), alla casa del Padre ma, come sempre per colui che ha fede, non è data ricerca alcuna di umana spiegazione in questo genere di cose. Si accetta. E basta. E noi accettiamo. Di Bellesi, così ci si chiamava in redazione, a Torino, e cioè per cognomi (così come io per loro, per gli amici missionari, ero e sono la Micheluzzi) ho già detto, in un immediato ricordo a caldo, che era una personalità, e per la statura imponente, e per il vocione e per la sua più che baritonale risata, quando ironizzava e/o ti prendeva affettuosamente in giro, che incuteva una certa quale soggezione. Dentro di me, agli inizi, mi dicevo anche che era un po’ “orso”. Ma, messa da parte l’ufficialità del ruolo, nel privato, e cioè quando non era preso interamente dal suo lavoro, ho poi avuto modo di scoprire che, semmai, era un orso molto affabile. Azzarderei, anzi, un quasi “tenerone”. E, a conferma, mi spiego. Riferisco quanto mi accadde , anni addietro, quando entrai per la prima volta nell’ufficio, lì dove padre Benedetto s’attardava quasi sempre a portare avanti il suo lavoro di giornalista. E lo faceva, spesso, anche in ore impossibili. E questo pur di chiudere, nel tempo stabilito, l’ultimo numero di “Missioni Consolata”. Marchigiano,grande lavoratore, (la redazione di corso Ferrucci, alla fine degli anni ’80, era composta da un veneto, un lombardo e un marchigiano, lui appunto), era severo con se stesso oltre che con gli altri, da cui esigeva, senza sconti, serietà d’impegno. Entro nell’ufficio, quel giorno di un luglio di tanti anni fa e, mentre padre Benedetto lavora in silenzio al computer accanto alla finestra, dalla parte opposta della scrivania, io mi soffermo a osservare per pura curiosità alcuni libri e riviste, che sono sparsi sul suo tavolo assieme all’immancabile pacchetto di sigarette e accendino. E lo sguardo, inevitabilmente, mi si posa su di un portaritratti in cui fa bella mostra di sé la stessa foto, scattata moltissimi anni prima in Sudafrica, quella medesima che si può osservare alla pag. 5 di “Missioni Consolata”, ultimo numero, unitamente ad una di lui più recente . Mi colpisce il fatto, accanto all’atteggiamento paterno con cui abbraccia i due bambini nella foto, per altro molto piccoli per età, il fatto che fosse l’unica foto sulla sua scrivania. Per me e per chi l’aveva messa un suo significato l’aveva e ce l’ha. I missionari, pensatela pure un po’ come volete, contestate pure se vi piace, sono persone, che hanno dello straordinario. Uomini e donne “speciali”. Uniscono, al dono di una fede salda in Dio , senza la quale non potrebbero mai proseguire nel loro “mandato”, quello che si chiama amore per la conoscenza autentica dell’uomo, fosse anche l’ultimo uomo della Terra. E quest’amore, accanto all’accoglienza, alla consolazione, alla guida benevola, è soprattutto trasmissione e dono di quel prezioso tesoro che si chiama la”Parola”, che tutti hanno il diritto di conoscere anche i “lontanissimi”. Salvo poi liberi di rigettarla, se non interessa loro. Rivedere, sulla rivista, la stessa foto che mi ha fatto pensare all’ importanza per un uomo dell’unicità di una scelta di vita quale è la “Missione”, nel caso la “missione “ di padre Bellesi, mi conferma, ancora una volta, quanto è importante raccogliere il “testimone” . Non lasciarlo cadere. Non mollare mai. Amare la “Missione”,un amore molto “contagioso”, amare gli amici “missionari”, capire che la “Missione “ ha bisogno di noi (nel vicino e/o nel lontano) specialmente in un momento storico molto delicato come quello attuale, significa certamente “coerenza” d’intenti di fede e impegno nelle opere di bene, per chi si dice credente. Ma anche, per affetto e stima sinceri, raccogliere e non disperdere affatto i tanti suggerimenti di vita cristiana che padre Benedetto Bellesi ci ha donato (e non solo lui tra i missionari e le missionarie amici) e proseguire lungo quei molteplici orizzonti che Egli, con la sua testimonianza, ha provato a dischiuderci attraverso i suoi reportage o le profonde riflessioni di spiritualità, sempre attinenti alla concretezza dell’esistente.// di Marianna Micheluzzi

venerdì 23 agosto 2013

"E' proibito" /La Poesia degli altri / Spazio riflessione

E’ proibito piangere senza imparare, svegliarti la mattina senza sapere che fare avere paura dei tuoi ricordi. È proibito non sorridere ai problemi, non lottare per quello in cui credi e desistere, per paura. Non cercare di trasformare i tuoi sogni in realtà. È proibito non dimostrare il tuo amore, fare pagare agli altri i tuoi malumori. È proibito abbandonare i tuoi amici, non cercare di comprendere coloro che ti stanno accanto e chiamarli solo quando ne hai bisogno. È proibito non essere te stesso davanti alla gente, fingere davanti alle persone che non ti interessano, essere gentile solo con chi si ricorda di te, dimenticare tutti coloro che ti amano. È proibito non fare le cose per te stesso, avere paura della vita e dei suoi compromessi, non vivere ogni giorno come se fosse il tuo ultimo respiro. È proibito sentire la mancanza di qualcuno senza gioire, dimenticare i suoi occhi e le sue risate solo perché le vostre strade hanno smesso di abbracciarsi. Dimenticare il passato e farlo scontare al presente. È proibito non cercare di comprendere le persone, pensare che le loro vite valgono meno della tua, non credere che ciascuno tiene il proprio cammino nelle proprie mani. È proibito non creare la tua storia, non avere neanche un momento per la gente che ha bisogno di te, non comprendere che ciò che la vita ti dona, allo stesso modo te lo può togliere. È proibito non cercare la tua felicità, non vivere la tua vita pensando positivo, non pensare che possiamo solo migliorare, non sentire che, senza di te, questo mondo non sarebbe lo stesso. non sentire che, senza di te, questo mondo non sarebbe lo stesso. Pablo Neruda //(m.m.)

Quale finalità per l'arte oggi ? /Un invito a leggere l'ultimissimo Arthur Danto

Un novantenne, la cui intelligenza e cultura fanno invidia senza dubbio a molti giovani e giovanissimi, ci dice a chiare lettere che i criteri classici di origine platonica (bellezza, mimesis, capacità di destare emozioni), impiegati finora dalla critica militante per la lettura di un’opera d’arte attualmente non vanno più bene. Anzi da parte dell’ illustre vegliardo un suggerimento spassionato : riporre, accuratamente, in soffitta e guardare ad “ altro”. Parlo di Arthur Danto, filosofo e noto critico d’arte statunitense. Di mestiere l’uomo Danto (ne sanno qualcosa i suoi allievi o gli ex e, soprattutto, i suoi fans) è un abile scompigliatore di pensiero in quel competitivo gioco intellettuale, che può essere la lettura “seria” di opere d’arte da parte da parte dei cosiddetti esperti della materia, sempre pronti, tuttavia, all’occasione, a dispensare veleni, a destra e a manca, pur di mettere in difficoltà l’avversario. Egli, il “grande” vecchio, nell’ultimo saggio pubblicato, “What Art is”,Yale University Press (NewHaven and London) e non ancora tradotto in italiano, opera addirittura una rivisitazione del proprio stesso pensiero in materia di estetica ( non più arte considerata tale in diverse tappe d’accettazione a seconda dei periodi storici).E lascia aperta ancora, semmai, la strada ad un ulteriore possibile e arricchente percorso di definizione dell’opera. E la provocazione sortisce l’effetto. Infatti, quella che anche per Hegel era in un ben connotato periodo storico l’idea certa della morte dell’arte, diviene per Danto ,all’improvviso e con molteplici esemplificazioni a sostegno, non più un qualsiasi “oggetto” superato dal pensiero filosofico, come per il pensatore tedesco, ma è l’arte medesima pensiero logico. Cioè lo è essa stessa. Questo vuol dire che l’arte ha una sua permanenza ontologica (é) e a che fare con il “vero”. Dato per scontato che tutto è transitorio rispetto alle modalità del fare e del significato specifico di un’opera d’arte , Danto ci parla di “significato rilevante”(aboutness) e questo significato ha, al contempo, anche il compito preciso di tradurre il pensiero in materia(enbodyment). Ecco, secondo il “nostro”, il criterio da tener presente in ogni lettura. Un significato non vale più di un altro ma esso deve esserci e sapersi incarnare al meglio. Non importa se parliamo di un Carpaccio, di un Picasso o di un Andy Warhol o di un Duchamp, di un dipinto del catalano Segui o dei manichini del conte Nani Marcucci Pinoli di Valfesina. E da provocatore, come già detto, il pensatore Danto la butta là per dirci che l’arte può portarci anche ad uno stato emotivo nuovo e non necessariamente positivo. E non come ne argomenta Kant nella “Critica del giudizio”, considerando ormai esaurito oggi, a suo avviso,il grande ciclo dell’arte occidentale. Concludendo : a noi il “Rovello”. // (m.m.)

giovedì 22 agosto 2013

Il dono di Danuwa / Racconto / Il piacere della narrazione

Da sempre, al villaggio di Sererit, quello che è un Kenya un po’ ingrato, periodi di “buona” sorte e periodi di siccità, e dunque anche di carestia temporanea, si alternavano nel trascorrere monotono dei giorni, dei mesi e degli anni. E Danuwa e la sua giovane numerosa famiglia accettavano la condizione ingrata o propizia, a seconda del momento, senza mai un cenno di ribellione. Semmai, con paziente speranza, la donna, che pregava tanto i “suoi” antenati, memore dei consigli della nonna, una saggia donna, quanto ascoltava con attenzione le raccomandazioni del prete cattolico, la domenica, in chiesa, era certa che un giorno o l’altro le cose sarebbero cambiate e , di sicuro, in meglio. Un pomeriggio d’inizio maggio infatti, il suo uomo, di rientro dalla città vicina, dice a Danuwa che un gruppo di persone di bell’aspetto e ben vestite, incontrate per caso all’emporio cittadino, gli ha proposto un viaggio in Europa a fronte di un gruzzolo di dollari in cambio. I soldi occorrono per il viaggio e la mediazione nell’affare. E aggiunge che sarebbe il caso di tentare l’impresa senza esitazione per il bene di tutti. Danuwa e il suo uomo sono sposi giovanissimi. Essi, com’è giusto che sia, sognano per i loro quattro bambini un futuro certamente migliore del loro. E il futuro la coppia sa bene che lo si costruisce con il lavoro e, per giunta, con un lavoro ben pagato. E, soprattutto, con tanti sacrifici. Fossero pure i sacrifici del “cuore”. Così, proprio a malincuore, perché lo amava più dei suoi stessi occhi, Danuwa lascia che lo sposo organizzi il suo viaggio. Quando giunge il mattino della separazione, il saluto e l’abbraccio sono carichi di commozione. E il cuore di Danuwa è come trafitto da un machete ben affilato che la penetra. Ma nulla nella donna traspare. Lei sa cosa significa quella separazione e accarezza teneramente la testolina ricciuta del suo ultimo nato. Le notti sono subito molto lunghe e tristi per la giovane donna da trascorrere in un letto senza accanto il proprio uomo. Le giornate, invece, per fortuna scorrono in fretta ripartite come sono tra mille incombenze nei campi,spesso sotto un sole impietoso, nei chilometri interminabili fatti per andare a procurarsi l’acqua e, infine, nelle faccende domestiche tra i giochi e i gridolini gioiosi dei suoi figli. Trascorrono un paio di mesi dal giorno di quella partenza quando, inaspettatamente, il capo-villaggio manda a chiamare in tutta fretta Danuwa. E Danuwa lo raggiunge con una corsa precipitosa, trascurando tutto il rimanente da fare. E’ arrivato un telegramma ad un indirizzo in città, recapitato poi al villaggio, dove si dice del crollo di un’impalcatura in un palazzone in costruzione in una città del nord-Europa (pare ma la cosa non è poi neanche tanto certa), il cui nome non è neanche ben chiaro. E in quel crollo sono morti alcuni muratori e manovali immigrati. E non di tutti è nota l’identità. La donna, ammutolita,senza ascoltare oltre, compie il percorso all’inverso per fare ritorno alla propria abitazione. E lì abbraccia i suoi bambini, simulando un qualcosa che assomiglia a un girotondo. Ma è un girotondo triste. Molto triste. Danuwa sa bene cosa significherà per lei d’ora in avanti la sua vita al villaggio. E cioè quella, nel rispetto di leggi non scritte, di una donna senza il suo uomo. Intanto,trattenendo il pianto e abbozzando un sorriso un po’ grottesco, al momento pensa solo a preparare nervosamente una ricca polenta di sorgo per quella sua nidiata, che è sempre affamata. (m.m.)

mercoledì 21 agosto 2013

Effimero / Spazio Poesia

Incontrarsi e perdersi nel labirinto delle incomprensioni. Sale sulle ferite di una balorda quotidianità. Fenditure nell’animo. (m.m.)

Sudafrica /La crisi non risparmia neanche il settore dell'auto

Sappiamo ormai da tempo che le cose non vanno bene più in Sudafrica, pur trattandosi, per qualità della vita e per sviluppo generalizzato in differenziati settori della produzione, del commercio e dei servizi, il primo Paese del continente africano. Una politica sbagliata, perché corrotta e fatta da abili corruttori in colletti bianchi, ha prodotto per gradi i suoi danni anche laggiù. E ha fatto e fa rimpiangere oggi, ma anche ieri e l’altro ieri, un po’ a tutti, bianchi o neri, quella che fu la presidenza Mandela e l’impegno serio di un ANC,che attualmente è soltanto il lontanissimo ricordo di un movimento politico, e poi partito, che seppe distinguersi con parecchi meriti in quella che fu la lotta senza tregua contro l’apartheid e mettere fine alla dominazione coloniale britannica e boera. Altri tempi, altra epoca. Finito. Oggi c’è Zuma e il suo populismo d’accatto e una crisi economica galoppante, che non risparmia nessuno. Popolazione bianca inclusa. In questa coda d’inverno australe (giugno-agosto), infatti, si stanno discutendo nel Paese tutti i contratti di lavoro da rinnovare e ci sono inevitabilmente una serie di scioperi a catena . I primi, fastidiosissimi,riguardano addirittura il settore dell’auto. La produzione automobilistica, riferiscono i media locali, è quasi ferma in quanto almeno 30 mila operai hanno disertato, in queste ultime ore, il loro posto di lavoro. E questo perché alla loro richiesta di un aumento del 14% sul salario attuale (l’inflazione in Sudafrica è al 6%), la produzione ha risposto che non sarebbe andata oltre l’8%. Poiché il settore dell’auto incide per il 6% sul Pil nazionale e rappresenta il 12% delle esportazioni è molto chiara la gravità dell’impasse in cui si trovano i grandi produttori e con essi tutto il resto dell’indotto (piccoli produttori e lavoratori), che ruota intorno. In poche parole significa ulteriore soppressione di posti di lavoro in un Paese in cui la disoccupazione comincia ad essere (e lo è realmente ) un problema di non più facile gestione. Se si guarda al settore minerario poi, anche lì c’è poco da sorridere. L’Amplat, società mineraria che trae in loco i suoi profitti dalle miniere di platino, definita il “gigante” del platino, ha annunciato, a breve, il licenziamento di 70 mila persone tra minatori e amministrativi. // (m.m.)

martedì 20 agosto 2013

Torino (Italia) /Islam fondamentalista in azione /Curare per prevenire

E’ accaduto circa un mese fa, a luglio, molto prima dell’esplosione irrefrenabile delle piazze al Cairo e nel resto d’Egitto, e prima ancora dell’arresto di Morsi, il presidente arrestato e anche con pesanti capi di accusa, palese creatura e potavoce dei “dictat” della Fratellanza musulmana. Un amico, parlandomi a telefono come siamo soliti fare almeno una volta la settimana, mi racconta, quando il discorso scivola in politica legata alla quotidianità, di un altro suo amico che, in pieno centro cittadino, ha subìto, in città, qualche giorno prima, un’aggressione piuttosto violenta, cui a stento è riuscito a sottrarsi, piuttosto malconcio. Ma procediamo con ordine. L’amico del mio amico - così mi viene riferito - è un imprenditore di origine egiziana residente da anni in Italia , a Torino, dove ha da sempre svolto indisturbato e con discreto profitto la propria attività. Un pomeriggio di luglio si trova a passare, a piedi, nella zona di Barriera di Milano quando è avvicinato da un gruppo di suoi connazionali, mai visti prima, i quali lo aggrediscono, e lo colpiscono e lo feriscono nella persona, tanto che l’uomo è costretto a riparare, aiutato da alcuni passanti, al più vicino pronto soccorso per farsi medicare. Pare che la pretestuosa motivazione dell’aggressione fosse che l’imprenditore non era un “buon” musulmano. E le accuse gridate ad alta voce erano che lui, l’imprenditore, non aveva osservato il digiuno previsto dal ramadan. Inutili,quindi, le risposte difensive del malcapitato agli aggressori nel tentativo di spiegare loro che egli era ed è semplicemente un cristiano copto e senza obbligo pertanto di osservare ramadan alcuno. Questo spiacevole episodio, su cui sono comunque in corso le indagini della Digos torinese, ci dice a chiare lettere cosa significa o potrebbe significare, a breve, la lenta penetrazione di un islam fondamentalista in Europa e, pertanto, nelle nostre stesse città italiane. E’ un aspetto del problema, quello della “tolleranza religiosa” e dell’ accoglienza allo straniero, dotato di cultura e confessione religiosa “altra”, da maneggiare con cura e molta competenza. Certo da non demonizzare apriori , ma neanche da sottovalutare. Potete immaginare, se tanto mi dà tanto, (e qui parliamo di un singolo episodio di nostra conoscenza e accaduto in un Paese ancora democratico e con istituzioni funzionanti)) cosa devono essere stati e cosa sono questi giorni, in Egitto, per chi non fosse, per credenza religiosa e/o posizione politica, vicinissimo ai Fratelli Musulmani. E con la lobbie dei militari in sostituzione dei “barbuti” non c’è ugualmente da stare molto allegri. Potrebbero raccontare ogni cosa e con dovizia di particolari i copti di laggiù che, oltre ad avere visto (e non solo ora) le loro chiese danneggiate e date alle fiamme, subiscono da tempi immemorabili terribili discriminazioni sociali nel contesto egiziano. E questo senza che l’opinione pubblica internazionale abbia mai sollevato o sollevi la questione del rispetto . Torino, sotto questo profilo, è una città italiana, una delle poche, che ha accolto e accoglie lo “straniero” (anche e non solo coloro che professano la religione di Maometto) con intelligenza. E cioè nel senso che si creano da anni parecchie opportunità sul territorio per italiani e stranieri di conoscenza e d’inculturazione reciproca. Mi viene in mente, ad esempio, il Centro Studi “Federico Peirone”, in quanto ebbi, tra laltro, a suo tempo, la fortunata opportunità di conoscere personalmente il missionario della Consolata, docente emerito di arabo ed esperto conoscitore e primo tra i traduttori in italiano del Corano, cui il Centro è intitolato, e poi le differenti associazioni cittadine come quella per il Tibet e i Diritti umani o il Centro d’amicizia italo-arabo. E , ancora, da non trascurare tutto quanto organizza periodicamente la stessa Diocesi torinese, in piccolo, nelle singole parrocchie, e sempre con l’obiettivo mirato di favorire iniziative unitarie di dialogo. E allo scopo di evitare il ripetersi d’incresciosi episodi in “casa nostra”, come quello di cui sopra che ho raccontato, sarà bene allora promuovere il lancio di questo genere di messaggi culturali, confessionali, politico-civici , in più città italiane. E con lo scopo di far pervenire, per quel poco o molto che possa realmente attecchire, un messaggio di pacificazione sopratutto all’altra sponda del Mediterraneo. Quella le cui “Primavere arabe” ci avevano fatto sognare e ben sperare che non è molto e in cui non abbiamo smesso di credere. // (m.m.)

lunedì 19 agosto 2013

Rep.Dem. del Congo /Liberati più di ottanta bambini-soldato

Una piaga che non cessa d’essere, nonostante l’impegno delle agenzie umanitarie internazionali in prima battuta e del mondo missionario poi quanto a rieducazione e graduale reinserimento (solitamente sono molto impegnati in questo processo rieducativo ,ad esempio, i salesiani), è quella dei bambini-soldato in Africa. E’ notizia recente, infatti, dalla Monusco, in una sua nota ufficiale della scorsa settimana, della liberazione in Congo, in operazioni congiunte di più agenzie Onu, di almeno 82 tra bambini,ragazzi e ragazze, tutti reclutati come bambini-soldato dalla milizia Bakata Kalanga, che è attiva al momento nella provincia congolese del Katanga. L’età dei giovanissimi è compresa tra gli 8 e i 17 anni e l’intervento per riuscire a liberarli è avvenuto esattamente dal 13 maggio al 15 agosto di questo anno. Sia i bambini che le ragazze sono in buon numero ritornati presso le loro famiglie d’appartenenza ma non è e non sarà così per tutti. Alcuni non hanno più famiglia e altri ,dalla famiglia e/o dall’intero villaggio di provenienza, vengono rifiutati in quanto più che altro si temono le loro inconsulte e ingiustificate reazioni. Di norma le condizioni psicologiche di questi minori sono bisognose di un adeguato e progressivo periodo di rieducazione proprio a causa delle sopraffazioni loro imposte, dopo e durante il reclutamento presso le milizie combattenti. Queste forme di plagio li ha resi violenti e pericolosi per se stessi e per gli altri. Difficile è il ritorno alla normalità anche per le ragazze in quanto, quasi sempre esse, oltre che fare da cuoche e da lavandaie per gli uomini della truppa e i loro comandanti, sono abusate sessualmente. //(m.m.)

domenica 18 agosto 2013

Giscard Kevin Dessinga "Et si l'Afrique n'aimait pas la démocratie" (L'Harmattan) /da "liberamenteagosto"

Un tema in questi giorni, e non solo, di notevole interesse (vedi , ad esempio, quanto di terribile è accaduto e sta accadendo in Egitto - Mali -Repubblica Centrafricana -Sud Sudan) è il dibattito sull’esistenza o meno della democrazia politica in Africa (nonostante i Mandela, i Nyerere, i Senghor etc) e/ o su come sia possibile, almeno, provare a poterla costruire, per ottenere quei risultati tanto sperati dalla gente comune, che si chiamano convivenza armonica e pace definitiva. E cioè non più sangue, non più morte, non più guerre, non più arbitrii ingiustificati. Ecco, allora, di Giscard Kevin Dessinga “ Et si l’Afrique n’amait pas la démocratie?”(edizione L’Harmattan), un’autentica opportunità di riflessione in un agile saggio che, in un centinaio di pagine, affronta proprio quella strada. Un cammino che di certo è molto in salita, in quanto un continente non si può rendere democratico per decreto. Dessinga, un francescano congolese,un Paese africano anch'esso terribilmente ferito, rischia tuttavia nell’argomentare di non andare molto più in là rispetto al già detto in precedenza da altri studiosi del problema, perché in sostanza percorre il classico itinerario tradizionale. Egli sostiene, infatti, che per conseguire la democrazia c’è bisogno di un duro apprendistato, che significa istruzione diffusa, relativizzazione e desacralizzazione del potere, capacità di mediazione. Proposte sacrosante e modalità “forti” ma non più bastanti alla luce dei rapidissimi cambiamenti dei nostri Tempi (apparizione di modelli culturali supportati dalle nuovissime tecnologie informatiche) e alle richieste sempre più esigenti delle nuove generazioni del Continente.//(m.m.)

sabato 17 agosto 2013

Emergenza Somalia in un'Africa a ferro e fuoco

La descrizione di quello che è in queste ore l’inferno egiziano lo lasciamo di diritto agli inviati speciali,ai giornalisti di mestiere e ai free-lance di buona volontà, che rischiano la loro stessa vita (e non è la prima volta) pur di raccontarci l’inimmaginabile cui l’essere umano, per sete di potere, ideologia politica e/o fanatismo religioso è capace di pervenire. Quando si spegne il lume della ragione. E ci occupiamo, semmai, di un altro dramma umano, non meno grave, che riguarda la Somalia. La Somalia, che non ha pace da oltre vent’anni. Dove la sua gente soffre di tutto (mancanza di acqua, di cibo, malattie), muovendosi in città e/o villaggi spettrali o affrontando chilometri di marce su strade sterrate per giungere, abbandonate le proprie case, in inospitali campi profughi, che sanno più di pericoloso serraglio che di posto d’accoglienza. E recentissima, data la situazione politica dell’area dell’intero Corno d’Africa e la tenace aggressività (leggi guerriglia) degli shabab in ogni luogo è loro possibile (reclutano persino nella Repubblica Democratica del Congo tra gli scontenti), è la notizia che MSF (Medici senza frontiere) lascia. E sappiamo tutti quanto fosse fondamentale il suo apporto. E non solo in Somalia. Come si dice, ed è questo il caso, i guai tendono spesso a sopraggiungere tutti assieme. Infatti al mix di sangue, miseria e sofferenze, abituali in quel pezzo di mondo, si è aggiunta una epidemia di poliomelite, che interessa il centro-sud della Somalia e alcune zone settentrionali del Kenya. E non c’è né personale sanitario disponibile per fare fronte e non ci sono, soprattutto, i vaccini a sufficienza, per praticare le vaccinazioni ai bambini di quelle aree. Parliamo di 600 mila bambini circa e tutti,ovviamente, a rischio. La difficoltà maggiore- è scritto in un Rapporto dell’Ocha – è penetrare in quei territori dall’accesso impossibile. E pare, tra l’altro, che l’epidemia di polio sia anche una delle peggiori, considerato il numero dei contagi ,già verificatisi, in un Paese non endemico da almeno sei anni a questa parte. La salute come il diritto alla vita è qualcosa di inalienabile per tutti. Non bisognerebbe mai dimenticarlo. Mi riferisco a coloro che hanno responsabilità di governo e che dovrebbero tutelare la loro gente e non sopraffare o vessare. Cosa che, purtroppo, nei fatti accade per sistema. E,quando non è così,(l’ultimo governo somalo ha mostrato tutta la sua buona volontà per la realizzazione di una possibile ripresa economico- politico-sociale) la comunità internazionale non può, comunque, stare solo a guardare.//(m.m.)

venerdì 16 agosto 2013

da Man (Costa d'Avorio) , mercoledì 7 aprile / Reading dal diario "Un giorno come tanti" di Mirco Nacoti - edizioni Dell'Arco (MI)

La solita giovane donna proveniente da lontano, le solite ore di viaggio su strade inammissibili, la solita gravidanza molto complicata. Taglio cesareo d’urgenza e per fortuna il bimbo è vispo. Per la donna, invece, troppo sangue perso,troppe ore perse, troppi medicamenti assenti, troppe cose storte. Marie Cristine, l’anestesista, è da poco in pensione e alla prima esperienza con MSF. Piange rabbiosamente perché è stanca di vedere morire a quel modo anche se rientra negli standard. Tanja,chirurgo trentacinquenne e cinque anni di MSF piange anch’ella rabbiosamente perché non si possono ingiuriare gli standard MSF ed è normale morire in quel modo in Africa. Notte e solo tanta pioggia amica battente. Mi domando : è normale morire così ? Si può accettare di morire così? Sono stanco. Le forze sono all’osso.//(m.m.)

giovedì 15 agosto 2013

Leggere a Ferragosto ! /"Storie in cerca di dignità" di M.Donati- EMI- Bologna ,2013

<< Il Matto, il profugo iraniano, "un piccolo fascista", Guido della banda del Bel René... Dodici piccole grandi storie, di riscatto oppure no. Qualcuna interrotta troppo presto, come il Marinaio. Sono tutti abitanti, dall'aspetto di solito poco rassicurante, di Basùra (la parola”basura in spagnolo significa immondizia), nome immaginario di un posto reale. «Una città - spiega l'autore - come ce ne sono tante in Italia, né troppo grande, né troppo piccola; piena di cose belle e interessanti, ma nei cui bassifondi, lontano dai riflettori e invisibili ai più distratti, vivono personaggi che ogni giorno lottano per sopravvivere. Cercano un posto dove dormire, un piatto caldo, delle coperte, uno straccio di lavoro, qualcuno che li stia ad ascoltare o anche il modo per rimediare ai propri errori. Vorrei che queste storie servissero a qualcuno o a qualche cosa. Sono tutte storie vere, parlano di persone come noi>>. Matteo Donati è responsabile del Centro di ascolto della Caritas di Pesaro e ha ottenuto, mesi addietro, proprio in occasione dell’uscita del suo ultimo libro (lo aveva preceduto, sempre pubblicato dall’EMI di Bologna, “Dio non produce scarti” ) il titolo di Cavaliere al merito della Repubblica per il suo impegno accanto a persone in difficoltà, quelli che la gente distratta guarda e non vede e, tutt’al più, bolla come emarginati.//(m.m.)

mercoledì 14 agosto 2013

Circolare e verticale / Haiku per celia /Risposta a Francesco

Circolarità/ della perfezione/ verticalità/ dell’universale/ materia duttile/ dell’essere al mondo/ nel grembo erboso/ di madre Terra/ ricettiva e generosa./ (m.m.)

Pegaso /Spazio Poesia

Basta luna sorniona/ e notti di stelle cadenti./ Così come “stop”/ a marciapiedi affollati/ di turisti caciaroni/ e sempre avidi/ dell’ultimo scatto./ O a soste in spiaggia di/ bagnanti-crocieristi/ “mordi e fuggi”/ “parto” shock / della grande e interminabile/ “crisi” di regime./ Datemi un Pegaso alato / che è capace / di solcare l’onde / tempestose e bizzarre/ dell’oceano-mare / per giungere / ad abbracciare / il Tuo sguardo / e leggere lì / (e solo lì)/ le mille e una/ verità accampate./ (m.m.)

martedì 13 agosto 2013

Cinema / "C'est eux les chiens" di Hicham Lastri /Marocco-2013

Con “C’est eux les chiens” il regista marocchino Hicham Lastri ,con ottimo mestiere, racconta la storia personale, che s’intreccia con la “grande “ storia, di un uomo, un certo Majhoul, il quale nel lontano (ma non troppo) 1981 è imprigionato per essere tra i partecipanti, durante gli anni di piombo del Marocco, allo sciopero generale causato da un aumento improvviso del prezzo del pane e di tutti quelli che sono i generi di prima necessità. La risposta alla sollevazione popolare da parte di re Hassan II, all’epoca fu soltanto una terribile e spietata repressione, che molti ancora ricordano, con centinaia di morti, cinquemila arresti sommari, tra cui quello di Majhoul, e moltissime detenzioni senza processo. Quando Majhoul, scontata la sua pena di trent’anni, nel 2011 è finalmente libero, il disorientamento della sua persona, in piena primavera araba, è inevitabile e totale. Intanto le dure condizioni carcerarie gli hanno cancellato ogni memoria del “suo” passato, che con grande fatica egli cerca però, sforzandosi, di ricostruire a brandelli. E che per altro, quando poi lentamente emerge, è decisamente poco gratificante. Nel mentre l’uomo brancola a fatica nei percorsi della nuova esistenza, che gli tocca comunque affrontare, accade che s’imbatta casualmente in una troupe televisiva, della televisione di Stato, che gli chiede di raccontare al pubblico degli spettatori, tramite una inchiesta- reportage, la propria vicenda. Passato e presente. Tutto incluso. Questo significa per Majhoul (ed è un’ottima opportunità ) impegnarsi,aiutato dai membri della troupe televisiva (un giornalista, un operatore e uno stagista), a ritrovare certamente il “passato” nebuloso ma, al contempo, in particolare la propria odierna identità. Ritrovare insomma, ad esempio, quel poco o molto che è rimasto della sua famiglia. Il film di Hicham Lastri, che è stato apprezzato e dalla critica e dal pubblico nello scorso festival di Cannes (15-26 maggio), propone nel complesso una scelta estetica parecchio interessante e di buon gusto, a partire dall’utilizzo di materiale documentario filmico d’archivio, fin in apertura della narrazione, e in specie per l’interpretazione magistrale de noto attore di teatro Hassan Hadida, che indossa i “panni” di un Majhoul ai nostri giorni.(m.m.)

lunedì 12 agosto 2013

Egitto in forte tensione /Lontane le possibilità di una intesa tra le parti

E’ dalla giornata di ieri che si attende l’ “OGGI” per sapere come potrà concludersi lo scontro tra i legalisti egiziani (leggi : la lobbie dei militari e partiti laici e laicisti) e i sostenitori dell’ex-presidente Morsi,megafono dei Fratelli Musulmani, che non hanno intenzione alcuna di fare dei passi indietro e creare pertanto, nel Paese, i presupposti (con ragionevoli intese) di un moderno sistema politico democratico. E non c’è nulla di peggio di un’incertezza carica di tensione per provocare, alla più banale delle occasioni, un autentico incendio, magari , anche di imprevedibili proporzioni. Indipendentemente dalle notizie che ci giungono dai “ media” e /o dalla “controinformazione indipendente”, che è una realtà ormai con cui fare i conti da parecchio e che offre il polso della situazione, grazie all’uso di telefoni cellulari e internet, Emma Bonino, il nostro ministro degli Esteri, che conosce molto bene la realtà egiziana, per essere stata, tra l’altro, residente al Cairo alcuni anni addietro, si dice scoraggiata circa una conclusione in positivo. E questo è un ulteriore pessimo segnale per tutti i Paesi del Mediterraneo. Parole che fanno riflettere. Lo sgombero al Cairo di piazza Rabaa e Nahda si può dire che, da ieri, è quasi cosa fatta dal momento che militari e polizia egiziana hanno bloccato già le strade d’accesso per impedire ulteriori confluenze di persone. Ma quasi certamente le forze dell’ordine non potranno impedire il formarsi di cortei di manifestanti agguerriti con tutte quelle che saranno poi le prevedibili conseguenze del caso. Ed è ciò che, fuori dell’Egitto (mi riferisco alle differenti diplomazie internazionali, europee e non), se si riuscisse, non si vorrebbe affatto accadesse. Ossia ancora morti e feriti tra la popolazione inerme. E caos politico con danni ancora più gravi di quelli del presente all’economia egiziana. Intanto la Procura del Cairo (sostengono fonti attendibili) ha fatto sapere d’essere in possesso di prove certe che l’ex-presidente Morsi abbia incitato all’omicidio di manifestanti durante gli scontri dello scorso anno. Per inciso, tra i morti dello sbarco a Catania (i 6 migranti annegati l’altro ieri), sulle nostre coste, c’erano degli egiziani oltre che siriani. Come ci sono tuttora tra i sopravvissuti. E sono tutti giovani di età inferiore ai 30 anni.(m.m.)

domenica 11 agosto 2013

"L'abito vuoto" /Pensare l'Arte di Federico Severino / da "liberamenteagosto"

Esistenza precaria,disperazione del finito, fragilità che si sgretola se separata dalla verità. Il mito è nel maestro ( e cioè in Federico Severino,figlio di un padre piuttosto ingombrante,il filosofo Emanuele) un sentimento tragico per il suo destino immutabile che, appena qualche volta, si trasforma in simbolo. Colpisce l’opera “Dialogo con Presenza-Assenza”,allegoria in terracotta, dove le tracce (il vestito vuoto) dell’assente gridano in modo simbolico e angoscioso come sottolinea lo stesso Severino. E il vestito o “abito vuoto” è quella famosa ,difficile a raggiungersi, presenza di salvezza, punto fermo, che l’uomo, nel corso dell’intera esistenza disperatamente cerca nel “dialogo” che lo trascende e che molto spesso è delusione. E’amaro in bocca in quanto è la finitudine della condizione umana stessa che non consente .E ne è difficile di conseguenza l’accettazione. Dicono di Lui, e lo fa nel 1988 il suo amico Giorgio Mascherpa, critico d’arte : “ La natura medesima della sua materia prediletta, la terracotta, fa sì che anche le figure metafisiche più mostruose, quelle in cui l’uomo e la bestia paiono fondersi insieme ( ora con prevalenza dell’uno,ora dell’altra) non assumono mai caratteristiche dell’ horror e proprio per la calda, terrosa colorazione “cotta”, che per di più è in grado di evocare soprattutto la millenaria capacità di costruire dell’uomo, anziché la sua volontà distruttrice”. E, più di recente, Elena Esposito, nel catalogo edito da Franco Senesi nel 2009, scrive ancora dell’artista :”Severino sa unire arte e filosofia, storia e religione, l’antico e il moderno, il passato e il presente e il recupero dei miti dell’antichità è semmai la sfida avvincente di rimetterli in discussione nell’oggi.” E Federico di se stesso nel “distinguo”tra arte sacra e profana, a proposito di certe critiche poco generose, spiega :” Io penso che non basti la lezione di Tiziano, quella dell’ “Amore sacro e amore profano”. Penso alla delega dell’ente o popolo di Dio committente. Penso allo spirito, al vissuto del monaco ortodosso sul monte Athos, che dipinge le sue icone stando in ginocchio tra le nuvole e salmodiando. Quanto alla scultura, anche alla “mia” scultura, essa è rappresentazione materica della divinità arcaica, potente e immota. Il suo rapporto con il sacro è fondamentale : nelle culture artistiche la scultura è essa stessa ierofanica”. //Per approfondire l’argomento, chi vuole, può leggere interamente l’articolo di Antonio Tarzia “Filosofia e bronzi policromi” nel numero 8 di agosto 2013 della rivista Jesus. Periodici San Paolo- Alba(Cuneo)

sabato 10 agosto 2013

Malawi / Crisi agricola e rischio fame

Un raccolto di granturco, inferiore alla media stagionale, pone, attualmente e nei mesi a venire, a inevitabile rischio fame un milione e 400 mila persone in Malawi . Il dato è stato fornito da uno studio realizzato dal governo di Lilongwe, la capitale, insieme con gli esperti di alcune agenzie specializzate delle Nazioni Unite. Secondo il relatore speciale delle Nazioni Unite per il diritto all’alimentazione le difficoltà sono state causate in particolare dalla siccità, che ha colpito buona parte dei distretti nei mesi, che hanno preceduto il raccolto. Tra le cause ci sono state poi anche scelte inadeguate del governo, che andranno prese in esame per essere corrette, se necessario, e in un futuroabbastanza prossimo. Le politiche avviate dal governo, sempre secondo il relatore delle Nazioni Unite, non sono riuscite ad emancipare, nei fatti, il Paese da un’insicurezza alimentare e da una malnutrizione cronica. Infatti l’economia del Malawi poggia sull’agricoltura che, oltre la coltura del granoturco, dà grande spazio alla produzione di tabacco, destinato essenzialmente all’esportazione. Siamo così, nonostante certi sforzi profusi, ancora una volta, dinanzi all’ennesima emergenza-fame in Africa. (m.m.)

venerdì 9 agosto 2013

Mutilazioni genitali in Africa /Calo interessante ma relativo

Sono oltre 125 milioni nel mondo le donne che sono state sottoposte a mutilazioni genitali. Lo ha reso noto uno studio del Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia (Unicef) secondo il quale però negli ultimi venti anni di lotta sono stati compiuti progressi in diversi Paesi del continente africano. Secondo il testo, che comprende dati raccolti in 29 Paesi africani, dell’Asia e del Medio Oriente più colpiti dal fenomeno, in Kenya e in Tanzania il rischio che una ragazza sia sottoposta a queste pratiche si è ridotto di tre volte. Anche in Benin, Repubblica Centrafricana,Iraq, Liberia e Nigeria le possibilità sono dimezzate. Resta, invece, difficile la situazione in Somalia,Guinea,Gibuti ed Egitto. In questi ultimi Paesi la diffusione della pratica oscilla ancora tra il 98 e il 91 per cento.(m.m.)

giovedì 8 agosto 2013

Aurobindo ricorda.../Spazio riflessione / da "liberamenteagosto"

Vi sono momenti in cui lo Spirito abita tra gli uomini e il Respiro del Signore aleggia sulle acque del nostro essere ; ve ne sono altri nei quali si ritira e gli uomini vengono lasciati agire con la forza o nella debolezza del loro egoismo. I primi sono i periodi in cui anche con un piccolo sforzo si producono grandi risultati e si cambia il proprio destino. I secondi, invece, sono quelli in cui anche un grande lavoro porta scarsi risultati. E’ vero forse che gli ultimi sono preludio per i primi ;forse l’alito del sacrificio che sale fino al cielo fa scendere la pioggia della bontà di Dio. //tratto da “L’ora di Dio” di Aravinda Ghose (1872-1950), maestro spirituale e filosofo bengalese, conosciuto in Occidente come Sri Aurobindo. NB. La “Multireligiosità” è un dato scontato, oggi, in un mondo in cui siamo TUTTI un po’”migranti”. Pertanto piuttosto che accentuare le diversità dei culti,occorre consolidare la conoscenza reciproca. Questa è cultura di PACE.(m.m.)

"Variazione su di un'ossesione" di Massimo Gezzi / La Poesia degli Altri

“Avete mai visto la danza dei muggini che saltano in branco al primo chiaro di luna?” Raccontava sorridendo, le mani callose e inargentate dalle squame :”E il balzo del pesce spada, nei mattini color perla ? O l’agonia dello sgombro nel secchio del pescato, che si lacera il muso picchiando contro la plastica?”. Non era giorno fatto che era già in alto mare, la camicia troppo lunga arrotolata sui fianchi, le canne allineate nella consueta successione. Quando lo avvistarono, alcuni giorni dopo, non era ancora buio : nel retino scintillavano le schiene delle aguglie, la canna spezzata dalle raffiche di vento indicava qualcosa, laggiù sotto il pelo. Lo trovarono supino, silenzioso e compunto : le orbite cave, le labbra smangiate dal sale atteggiate in un sorriso : fu l’unico prodigio che dovemmo raccontare noi. (M. Gezzi)

mercoledì 7 agosto 2013

Nigeria / Pena di morte / Disumano ritorno alla barbarie

Dopo una moratoria che durava dal 2006, in Nigeria c’è stato, dal giugno scorso, un ripristino della pena di morte in seguito purtroppo a ripetuti attentati criminali compiuti ai danni e delle forze armate locali e di alcune istituzioni pubbliche e della stessa popolazione civile. E il pensiero corre spontaneamente all’operare spietato e sanguinario di questi ultimi tempi di coloro che sono stati e sono seguaci del movimento fondamentalista islamico di Boko Haram. Infatti, in proposito, quattro persone sono state di recente giustiziate tramite impiccagione nella prigione di Benin City (Edo State,sud-est della Nigeria) mentre una quinta,che avrebbe dovuta essere giustiziata mediante fucilazione, è ancora in attesa di subire la propria condanna in quanto pare che il carcere sia sprovvisto (così si dice) dell’attrezzatura necessaria. Incredibile quanto assurdamente vero il tutto. E questo, per altro, è reso possibile dalla stessa Costituzione, cioè da quella che è legge dello Stato, della Federazione nigeriana. Ecco, allora, che tutti i vescovi cattolici,ossia la Conferenza episcopale nigeriana al completo, ha duramente e ufficialmente condannato in una lettera alle pubbliche autorità l’uso della Costituzione per giustificare quelli che sono,a loro giudizio,degli autentici omicidi. E si domanda , quindi, di emendare la Costituzione in quel paragrafo, punto o capitolo che sia, perché lesivo dei diritti della persona e, particolarmente, del diritto alla vita. E’ certamente preoccupazione manifesta dei vescovi cattolici ma non lo è di meno da parte di organizzazioni umanitarie laiche,operanti in Nigeria, che vi ravvisano anch’esse un ritorno alla barbarie. Di chiunque, insomma, sia dotato di umanità e abbia rispetto per la vita.(m.m.)

Sud Sudan /Difficile riconciliazione /La radio può dare una mano

Sono trascorsi due anni dalla nascita,all’epoca felicemente salutato, del Sud Sudan indipendente ma ciò che più conta, e che ha nome pacificazione interna, preludio di crescita umana e di sviluppo economico, manca ancora. Guerriglie interne e nemico esterno destabilizzano di continuo l’attività politica. L’impegno per un cambiamento dello stato di cose in positivo deve essere profuso dalle autorità e dai cittadini comuni,nonché dalle organizzazioni umanitarie presenti, soprattutto in questa direzione. Pervenire cioè assolutamente alla riconciliazione degli animi. E prima di tutto in casa propria. E bisogna farlo pur con la consapevolezza della scarsità di mezzi a disposizione sui quali poter contare. Il Sud Sudan, infatti, è ricco di petrolio e di minerali pregiati nel sottosuolo ma vive, nel quotidiano, tranne la solita cerchia ristretta di privilegiati (lobbie politiche) di magra agricoltura e di pastorizia. E senza Karthoum, la capitale del nord musulmano, e le sue infrastrutture, farebbe in realtà poco o quasi niente. A fianco della richiesta di un serio e scontato compito, che è domandato, com’è ovvio che sia, ai suoi politici e alla società civile in generale, c’è un progetto in corso dei missionari comboniani laggiù, che, a mio parere, merita tutta la nostra attenzione. E che mi fa piacere segnalare per quella che personalmente ritengo, dato il contesto locale, la sua impagabile utilità. Mi riferisco a Catholic Radio Network(CRN). Grazie ad operatori locali, a Juba, capitale del Sud Sudan, si forniscono all’intero Paese informazioni, si fa formazione civica, si tengono lezioni di alfabetizzazione, si insegna igiene e profilassi, utile soprattutto a mamme e bambini, residenti nei villaggi rurali,lontanissimi da ogni forma di assistenza medico-sanitaria. L’indice d’ascolto,dicono quelli che ci lavorano, si aggira intorno ai 4milioni di persone. E non è poco. Ora occorre, perché il progetto prosegua,un aiuto economico e i missionari lo chiedono con molta franchezza. Esso servirebbe a pagare il personale locale che vi lavora e provvedere a sostenere la struttura in sé con tutte le otto stazioni radio dislocate in altrettante periferie del Paese. Chi volesse saperne di più e fare qualcosa si rivolga alla Fondazione Nigrizia onlus dei missionari e delle missionarie comboniane,con sede a Verona, e reperibile quale indirizzo email agevolmente anche in internet.(m.m.)

Tempo dell'altro ieri, di ieri e di oggi / Modernità / da "liberamenteagosto"

Non c’è più fantasia,il nuovo mondo non sa che farsene della fantasia. I grandi problemi della produzione , i monotoni miti dei nuovi ceti non tollerano più la fantasia. Oggi si procede soltanto a miliardi e a tonnellate; miliardi di dollari, tonnellate di esplosivo. La musica del nostro tempo è la fanfara ; l’arma, il bombardamento. Si tende a mettere tutto in scatola : idee,frutti sentimenti, carne. Non c’è posto per la fantasia, che è figlia diletta della libertà. La libertà è morta perché si è troppo estesa. (Leo Longanesi 1943)

martedì 6 agosto 2013

Gitega (Burundi) / In funzione da ieri gli Stati Generali della Giustizia

Hanno avuto inizio che è poche ore (esattamente da ieri), nella città di Gitega , i lavori del seminario dedicato alla “Giustizia” in Burundi,che si protrarrà per altri quattro giorni successivi. Si tratta di un meeting di rappresentanti della società civile e di esperti del settore, in tutto trecento persone (uomini e donne del governo, parlamentari, magistrati, sindacalisti) che si propone di affrontare importanti questioni di natura legislativo-giudiziaria, cui urgono risposte repentine da parte delle autorità, chiamate in causa. In particolare saranno sottolineati i ritardi nella gestione dei procedimenti giudiziari, che si protraggono oltremodo e tempo. Soprattutto poi è indispensabile votare, nell’occasione e possibilmente con consenso unanime, la proposta di emendamento da lanciare in opportuna sede ( leggi il parlamento del Paese), per separare, sotto il profilo strettamente legislativo, il ruolo del presidente del Burundi, che è capo dell’esecutivo, da capo-guida del Consiglio supremo della magistratura. La riuscita in tale direzione sarebbe di certo un ottimo passo in avanti per la vita democratica in Burundi. Attendiamo, allora, le conclusioni dei lavori.(m.m.)

lunedì 5 agosto 2013

Egitto sofferente / Incertezze e difficoltà a trovare la cura

Tra feriti e caos per le continue manifestazioni di piazza, il bisogno di una ripresa economica, non più tramandabile, si è manifestato, che sono poche ore, con il gesto, da leggere senz’altro in positivo, della riduzione di 50 punti base del tasso d’interesse del denaro da parte della Banca Centrale d’Egitto. Questo significa che il Paese dei contrasti insanabili tra militari (casta privilegiata per eccellenza da tempo immemorabile) e Fratelli musulmani (reazionari, bigotti e oscurantisti, abili ad attecchire presso i più poveri e gli incolti con la propria demagogia) desidera, risolti una volta per sempre e, magari anche al più presto, i problemi politici, riavviare il turismo, ad esempio. Quello che ha, da sempre ,costituito una buona fonte di reddito e per la popolazione locale e per quello che si dice il segno positivo nel bilancio statale. Cosa che da parecchio tempo, per motivi ovvii, non è più. E che spesso ha fatto da volano per l’incremento collaterale persino di altre differenti attività lavorative Fatto questo passo in campo economico-finanziario, occorrerebbe d’ora in avanti, improrogabilmente, trovare, però, l’intesa che non c’è tra le due principali forze politiche contendenti. Sino a che questo nodo non sarà sciolto, il cielo egiziano non sarà sgombro da oscure e grevi nubi e la popolazione tutta continuerà a tirare avanti tra pericoli e stenti quotidiani. E perché ciò sia, risulta scontato agli occhi di tutti coloro che sanno guardare, che ciò che manca è il “famoso” dialogo tra le parti ( incomprensibile sovente ad una cultura occidentale di tradizione democratica) e il rilascio di Morsi. Cosa impensabile e molto improbabile al momento. Pertanto si continua a procedere nell’incertezza dell’istante successivo, cosa che non fa bene né all’Egitto, né ai paesi del Mediterraneo. Indistintamente tutti. Senza dire che questo procedere politico e di piazza è ciò che cerca quel fondamentalismo islamico, nemico dell’Occidente, che non perde occasione per insinuarsi lì dove alligna il malcontento e provare a soffiare sulle braci allo scopo di alimentare il fuoco dell’incendio La tattica è sempre la medesima. Piccoli focolai. Grande incendio terminale. (m.m.)

domenica 4 agosto 2013

Piccole iene,il leone parassita, una caccia particolare e una magra figuraccia /Griot racconta

Torniamo per un po’, anche se la stagione suggerirebbe ben altra destinazione, nel nostro consueto e accogliente villaggio africano, situato ai margini della savana, dove la compagnia degli amici è sempre piacevolissima. E, stavolta, c’imbattiamo, proprio per caso, in una famigliola di iene piuttosto numerosa . Si tratta, per l’appunto, di 9 figli , maschi e femmine. Oltre papà e mamma iena. Tutti sanno che le iene cacciano di notte le loro prede ma papà e mamma iena sono anziani e stanchi per cui, ormai, affidano il compito della caccia ai figli. E cioè a piccole iene, che un giorno cresceranno e saranno sul serio, con orgoglio dei genitori, delle iene di tutto rispetto. Queste, infatti, non vedono l’ora di imitare gli adulti e hanno, senza dubbio troppa, tantissima, fretta di crescere. Così ,quella sera, ascoltate le raccomandazioni paterne, partono immediatamente per la loro caccia al facocero. Si diceva,durante i giorni precedenti, che in giro ce ne fossero parecchi da quelle parti ed esse, a quanto pare, ne erano al corrente. Lungo il cammino però,le “nostre” s’imbattono in un leone, vicino di tana, il quale chiede di unirsi a loro. Esse non vorrebbero affatto la sua compagnia ma è assolutamente impensabile un rifiuto al re della foresta. E così acconsentono. Gira che ti rigira la caccia, quella notte, come da previsione, va proprio bene. E i cacciatori, compreso il leone, catturano 10 facoceri. Proprio un bel risultato!!!! Non c’è che dire, considerata la giovane età di piccole iene. Ma quando arriva il momento di spartire le prede catturate, il leone, prepotente com’è, pretende per sé niente di meno che 9 facoceri. Piccole iene non vorrebbero e fanno notare al leone che la cosa è ingiusta. E lo fanno ricorrendo a valide argomentazioni. Ma quest’ultimo ,il leone prepotente,è scontato che non ascolti ragioni. Tornate a casa dai genitori con un unico, e per giunta piccolo, facocero, piccole iene devono anche prendersi tutti i rimproveri dell’anziano padre, che le ritiene delle buone a nulla. Anzi papà iena dice loro che andrà immediatamente lui dal leone a reclamare il “suo”. E, in effetti, parte alla volta dell’abitazione del leone prepotente e parassita. Tuttavia, una volta giunto a destinazione, e ricevuta un’accoglienza freddissima, quasi glaciale per quelle latitudini, e dunque di grossa sufficienza da parte del leone, che con la sua di famiglia sta lautamente banchettando, non può fare altro che scusarsi per il disturbo arrecato con la sua presenza e , all’istante, battere immediatamente in ritirata. E senza facoceri recuperati. Il rientro del padre a casa propria non è certo un trionfo ma piccole iene hanno imparato la lezione. E cioè quella di fare molta attenzione alla compagnia dei prepotenti. E, se possibile, fuggirla sempre come la peste. (m.m.)

sabato 3 agosto 2013

La prigione della mente /Inquietante interrogativo e soluzione dubbia

“Ho cominciato a domandarmi come sarebbe ritrovarsi prigionieri nella realtà anziché nella fantasia, e sono giunto alla conclusione, sorprendente e inquietante insieme, che a condizione di poter leggere e scrivere ciò che mi aggrada, e di avere un compagno di cella amabile (o meglio ancora una condanna alla prigionia in isolamento) non troverei la cosa affatto terribile come dovrei.” (Bernard Levin) E’ quanto pensava e aveva annotato Levin, giornalista, intellettuale, uomo di cultura, molto tempo prima di ammalarsi. In parole estremamente semplici – scrive Arianna Huffington, colei che è stata nella vita reale l’amorevole compagna di Levin – dinanzi alla malattia (nel caso specifico l’Alzheimer) e, cancellati per gradi nel tempo i ricordi, anche quelli più importanti come può essere il riconoscimento della persona amata, con cui hai condiviso momenti fondamentali dell’esistenza, emerse semmai nell’uomo via via una presenza emotiva intensa,differente da tutti i precedenti aspetti conosciuti prima ( le doti intellettuali di Levin). Come se la persona si fosse liberata dai legacci di quell’instancabile prigione ,che è l’intelletto, e avesse trovato una nuova vita al di là dell’intelletto stesso. La dimensione di ciò che chiamiamo “spirito”. Per quel che può o potrebbe riguardarci la “cosa”, come non porsi questo genere di interrogativo specie se ci troviamo al capezzale di un malato, o condividiamo comunque, in qualche modo, il suo stato e/o la sua condizione ? // In alto, a corredo del testo, la foto di Arianna Huffington e ,nei riquadri,la Huffington con Bernard Levin . ( m.m.)

venerdì 2 agosto 2013

Solitudini di città /da "liberamenteagosto" /Preghiera silenziosa

E’ un vuoto, il nostro, che ci risucchia cui vogliamo opporci. Ma ci sono momenti in cui non possiamo che essere soli. Quando la prova ci tocca. Quando dobbiamo scegliere. Quando ci smarriamo dentro di noi e siamo,appunto, di necessità soli. Fa’ ,o Signore, che le nostre mani vuote non si chiudano mai a pugno ma si protendano verso di Te per ritornare a essere strumenti del tuo amore per tutti coloro che amiamo e che ci stanno accanto. Che siano essi vicini o lontani. Signore,Te ne preghiamo. (m.m.) //*Dedicata a tutti gli anziani rimasti in città quest’estate, alle donne sole, ai giovani senza lavoro, agli immigrati che sono lontani dal proprio Paese d’origine e ne hanno nostalgia. //Il dipinto, in alto, a completamento del testo è dell'artista catalano Joseph Segui Rico

giovedì 1 agosto 2013

ANTICO E' CONTEMPORANEO /ARTE E' SCIENZA E NON E' SCIENZA

Sgombriamo subito il campo da equivoci e diciamo che gli artisti, a mio parere ( e non solo il mio di parere) non dovrebbero affatto, e per nessuna ragione al mondo, seguire le mode del momento o i capricci dell’ acquirente, assecondandone furbescamente i gusti, e riuscire infine a vendere il proprio prodotto finito. Anche se vendere, si sa, che è importante per chi pratica l’ARTE. E’, infatti, ciò che gli occorre, molto spesso, per riuscire a mettere insieme il pranzo con la cena. Ecco ,allora, che capita che, in certe circostanze, non si facciano troppi distinguo. L’artista per dirsi tale deve possedere essenzialmente quella che si definisce, coram populo, creatività espressiva. Se non crea,se non è un autentico creativo, e si limita a ricopiare, a imitare, è giusto il dilettante volenteroso. Lodevole esercizio di buona volontà per acquisire magari confidenza con il “sogno” artistico. Niente di più. L’artista, appunto, del tempo libero o della domenica. ARTE (pittura, scultura, architettura, fotografia etc.) poi è scienza nella misura in cui implica uno specifico bagaglio di “attrezzi” ossia tecniche, scelta dei materiali, sensibilità al colore, conoscenze culturali pregresse. Senza strumenti è impossibile progettare e realizzare. Ex nihilo nihil. E scienza significa anche miglioramento delle tecniche nel tempo. Non è scienza, al contempo, quando il raggiungimento del progetto concluso è supportato in itinere da forti emozioni dell’artista, ben sposate però, attenzione, ai mezzi a sua disposizione per realizzarlo. L’emozione è motivazione per l’artista. Senza non c’è creazione alcuna che possa dirsi parto dell’ingegno. E l’occhio attento dell’osservatore questo lo coglie immediatamente. Il BELLO è di rigore anche nel brutto, nel deforme, nello sciatto. E’ l’ossimoro per eccellenza. Il “Bello” del brutto. Mi viene in mente “L’angelo del focolare” di Max Ernest (il trionfo del surrealismo) o sempre dello stesso autore “Ubu Imperatore”. E ancora, tra i “grandi” abbastanza vicini a noi nel tempo, il Picasso di “Guernica”,suggerita all’artista dalle atrocità della guerra civile spagnola. Tanto che la scelta del bianco e nero non è casuale. Che “Antico “ sia “Contemporaneo”, a riprova, basta solo una passeggiata, in questi giorni, sotto le “Arcate severiane”, a Roma, dove è in corso una esposizione d’arte contemporanea, i cui artisti (Jannis Kounellis e le sue pietre, le Combattenti di Marisa Albanese, i calchi in gesso di Nino Longobardi, che definiresti parlanti e mobili e tanti altri grossi nomi del panorama artistico italiano contemporaneo) sposano felicemente i loro prodotti artistici con le archeologie del passato imperiale romano tanto da meritarsi il titolo di postclassici. E ricordano anche al più digiuno dei visitatori l’antico inteso ,sia pure nella sua manifestazione di rovina o di frammento, quale metafora dello scorrere del tempo e, proprio perché “frammento”, passato o presente che sia, linea atemporale portatrice di valori assoluti. Che poi è il compito precipuo dell’Arte in ogni epoca storica. ( m.m.)