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domenica 20 aprile 2014

Oasi di utopie /Spazio Poesia

Incontri la “parola” ami la “parola” plasmi la “parola” e nello spazio e nel tempo resetti olezzi e magagne umane che rimpiazzi con assi di cuore nel gioco dell’esserci. E così un soffio apre brecce nelle anguste pareti della prigione. Sei tu il poeta. (Marianna Micheluzzi)

mercoledì 12 marzo 2014

Tanzania / Stregoneria è mala pianta /I missionari provano ad estirparla con la formazione e l'istruzione

NON ADORARE DUE DIVINITA' Ossia “il Dio di Gesù Cristo” e “lo stregone”. di Francesco Bernardi, missionario in Tanzania Che fare con lo stregone? Le morti si susseguirono una dopo l’altra, con ritmo impressionante, nella casa di Makene, un facoltoso anziano della tribù dei Wasukuma inTanzania. Dopo la celebrazione dell’ultimo lutto rituale, il figlio maggiore di Makene interrogò il genitore: “Padre, un tempo i nostri capi come punivano gli stregoni?”. Seguì un lungo e inquietante silenzio. Poi l’anziano Makene indugiò su alcune considerazioni. Infine il figlio maggiore e i suoi fratelli se ne andarono senza proferire parola. Ma in cuor loro avevano deciso: bisognava sopprimere subito quel losco stregone, responsabile di tutti gli oscuri mali che avevano funestato la loro casa. Il giorno successivo i figli di Makene fecero irruzione nello “studio dello stregone” proprio mentre stava trattando una paziente. Era un’avvenente signora: giaceva nuda sul letto, e le mani vogliose dello stregone le massaggiavano le cosce. Lo stregone venne immobilizzato in un lampo, portato fuori e impiccato ad un albero sotto lo sguardo compiaciuto di tutti. Quello era uno stregone davvero singolare. Anni prima era un sacerdote cattolico: padre Joni. Invaghitosi di una giovane donna, stava per abusarne. Ma lei resistette; non solo, bensì con un sasso colpì sul volto l’aggressore. La notizia fece il giro del villaggio, e il prete divenne il bersaglio di una generale derisione. Padre Joni, ebbro di rabbia e vergogna, si disse: “Io sono figlio di uno stregone pagano. Perché dovrei seguire la religione straniera dei bianchi? Ne abbraccerò un’altra: l’islam, ad esempio”. Detto, fatto. Il prete gettò la tonaca alle ortiche e divenne un seguace di Muhammad. Partì per il Senegal, dove sposò una ricca musulmana, dalla quale ebbe cinque figli. Però non si accontentava solo della propria moglie. “Passeggiava” pure con altre donne. Troppo. Un pomeriggio la consorte, con l’aiuto di alcune amiche, aggredì il marito, lo denudò da capo a piedi e lo minacciò: “Amore mio, sta’ bene attento! Se continui a disonorarmi, ti sgozzo come un maiale”. E gli puntò al collo un coltello affilato. Il libertino ebbe paura e fuggì ritornando in Tanzania, non prima però di aver sottratto alla famiglia un’ingente somma di denaro. In Tanzania l’ex padre Joni si dedicò alla stregoneria, facendo soldi a palate. La sua prima impresa fu l’assassinio di quella donna che, un tempo, non resistette alle sue voglie, anzi lo svergognò come nessun altro. “Scovate quella strega - ordinò ai suoi manutengoli - e portatemi qui su un piatto il suo basso ventre”. Così fu. È peggiore dell’aids Questa vicenda è narrata dallo scrittore tanzaniano, Gabriel Ruhumbika, nel libro “La piaga endemica degli indigeni” del 2001 (1). Nel 2001 qual era la “piaga endemica” del Tanzania? La stregoneria, piaga diffusa ovunque. La popolazione la temeva più degli artigli delle bestie feroci, più della lebbra, più dello stesso aids. Pertanto gli stregoni, se individuati, potevano anche essere linciati coram populo, come toccò allo spregiudicato ex padre Joni. Tali esecuzioni erano pure un sacrificio espiatorio e propiziatorio per i benestanti che continuavano a frequentare gli stregoni, ripromettevano di accrescere la loro fortuna. D’altro canto, i ricchi (uomini di affari, generali dell’esercito e della polizia, papaveri del governo ecc.) erano i primi a bussare dallo stregone per ottenere, a pagamento, “la medicina” che avrebbe garantito loro potere e prestigio. Talora la medicina consisteva in “arti umani”, tra cui dita di albini e organi sessuali. Il traffico della stregoneria prosperava clandestino, indisturbato e criminale. A volte i clienti dello stregone dovevano pagare le sue prestazioni persino con il “sacrificio cruento” di un loro figlio. Oggi peggio di ieri? Questo ed altro viene illustrato dal libro di G. Ruhumbika, che risale al 2001. Oggi, 2014, qual è il panorama della stregoneria in Tanzania? Il governo si è impegnato a sanare questo morbo contagioso, con l’intento soprattutto di fermare gli omicidi, perché a farne le spese sono spesso persone innocenti ed innocue, vittime di pregiudizi: donne con gli occhi rossi, portatori di handicap ecc. La legge sanziona con pene la pratica della stregoneria. Tuttavia il fenomeno, invece di diminuire, cresce. È sintomatico che nel 2010 le uccisioni legate alla stregoneria fossero 579, mentre nel 2012 salirono a 630. Ecco i nomi di alcune persone giustiziate, perché ritenute stregoni: - Lorenza, anni 70, di Geita: uccisa e bruciata dagli abitanti del suo villaggio; - William, 68 anni, di Mbeya: soppresso dai suoi stessi figli; - Gaetano, 60 anni, di Iringa: squartato a pezzi da ignoti (2). Sovente è lo stesso stregone ad accusare altri di stregoneria, decretandone la fine. La vicenda segue questa trafila: - un individuo, afflitto da malore, ricorre allo stregone per trovarvi rimedio; - se l’interessato peggiora e addirittura muore, lo stregone può ravvisare in un “nemico” la causa del male; - allora il “nemico” può essere eliminato con qualsiasi mezzo. Oggigiorno la stampa del Tanzania si sofferma su diversi casi di stregoneria. Ad esempio: il quotidiano Mwananchi ha scritto che il mercato all’aperto di Mbeya è stato più volte bruciato per ragioni di stregoneria. Ma c’è di più nella regione di Mbeya: il sospetto di stregoneria fa sì che si seppelliscano persino persone ancora sane e vegete (3). La posizione della Chiesa Circa la stregoneria, la Chiesa Cattolica si appella alla Bibbia. Plagiare persone, evocare spiriti o “battere assicelle” (kupiga bao) si compivano pure nella terra di Israele, “nazione eletta” di Dio. Ma erano atti severamente proibiti dall’Onnipotente. Il libro dell’Esodo 22, 18 recita: “Non lascerai vivere colei che pratica la stregoneria”. Il Deuteronomio 18, 10-12 precisa: “Non si trovi in mezzo a te chi immola, facendoli passare per il fuoco, il figlio o la figlia, né chi esercita la divinazione o il sortilegio o la magia; né chi faccia incantesimi, né chi consulti gli spiriti o gli indovini, né chi interroghi i morti, perché chiunque fa queste cose è in abominio al Signore”. Nel Catechismo della Chiesa Cattolica, 2117 si legge: “Tutte le pratiche di magia e stregoneria... sono gravemente contrarie alla virtù della religione. Tali pratiche sono ancor più da condannare quando si accompagnano all’intenzione di nuocere agli altri o quando si ricorre all’intervento di demoni. Anche portare amuleti è biasimevole...”. Né si scordi il Secondo Sinodo dei Vescovi dell’Africa, svoltosi a Roma nel 2009, secondo il quale la stregoneria esercita una forte attrazione... L’incertezza di fronte all’ambiente, alla salute, al futuro dei figli, nonché il timore di spiriti malvagi inducono la gente a ricorrere a pratiche contrarie all’insegnamento di Cristo. L’aderire, nello stesso tempo, a due fedi diverse ed opposte (paganesimo e cristianesimo) è una grossa sfida (cfr. Africae Munus, 93). Più esplicitamente, la sfida investe il cristiano tanzaniano che, alla domenica mattina, va a Messa in chiesa, e nel pomeriggio bussa alla porta dello stregone. Ecco “l’aderire, nello stesso tempo, a due fedi diverse ed opposte”. I missionari che dicono? Da sempre i missionari hanno combattuto la stregoneria (scontrandosi con gli antropologi), perché hanno ritenuto e ritengono che il fenomeno sia causa di divisione all’interno della comunità, fomenti odi e vendette a non finire (4). I missionari della Consolata non fanno eccezione. Però recentemente si sono sentiti gratificati da Tarcisio Ngalalekumtwa, vescovo di Iringa e presidente della Conferenza episcopale del Tanzania. Ai cristiani della parrocchia di Sadani il vescovo raccomandò: “Fratelli, rifuggite con coraggio dalla vendetta e dalla stregoneria. Queste sono piaghe che incretiniscono, impoveriscono e trasformano in figli delle tenebre” (5). Anche il citato G. Ruhumbika sostiene che la stregoneria sia “il grande inizio della povertà”. A parare dello scrittore, in Tanzania è in atto una guerra contro la stregoneria e “alla fine si conseguirà la vittoria” (6). Tuttavia non basta reprimere. Bisogna proporre un’alternativa alla stregoneria. Per i missionari l’alternativa è l’istruzione e la formazione. Senza scordare che un certo Gesù ha sconfitto il mondo, compresa la sua stregoneria. Egli sarà con i suoi fratelli tutti i giorni sino alla fine della storia (cfr. Giovanni 16, 33 e Matteo 28, 20). _____________________________________ 1) Autore e titolo originale del libro-romamzo in swahili: Gabriel Ruhumbika Janga sugu la wazawa, Dar Es Salaam 2001 2) Cfr. Taarifa ya haki za binadamu, 2012, LHRC & ZLSC 2013, pp. 34, 192 3) Cfr. Mwananchi, 13 novembre 2013 4) Il missionario, specie nel passato, di fronte alla stregoneria ha fatto spesso di ogni erba un fascio. Non sempre ha saputo distinguere tra “stregone” (sorcerer in inglese e mchawi in swahili) e “medico tradizionale” (medicine-man e mganga wa kienyeji). Il primo era ed è una figura essenzialmente negativa, mentre il secondo può guarire da varie malattie. 5) Cfr. la rivista Enendeni, machi-aprili 2014 6) G. Ruhumbika, op. cit., pp. 187, 193

venerdì 7 marzo 2014

AFRICA OGGI / LONTANA DAI NOSTRI STEREOTIPI

Il problema del suicidio in Africa NON SEI UNA TESTA VUOTA Ogni anno, nel mondo, oltre un milione di persone si tolgono la vita. E circa 700 in Tanzania. In Africa perché si suicidano? Perché ritengono di essere “teste vuote”. Ma per il Buon Dio nessuno è “una testa vuota”. di FRANCESCO BERNARDI, missionario in Tanzania Kazimoto e Sabina Kazimoto è un giovane di 30 anni, insegnante in un liceo. È cattolico, però il cristianesimo non è penetrato nel suo cuore e non ha cambiato il suo carattere frivolo, specialmente a livello morale: infatti spesso e volentieri frequenta il pub del villaggio tracannando birra e, se trova una ragazza, se la porta a letto senza alcuno scrupolo. Anche la tradizione non incide più di tanto nel comportamento di Kazimoto. Ieri ha incontrato un gruppo di anziani del villaggio, che hanno rammentato la vita del passato: hanno ricordato le storie dei capitribù, di personaggi fantastici che si arrampicavano sugli alberi con una sola mano e di una femmina con la coda, piovuta dal cielo, che generò diversi figli e poi scomparve. Kazimoto ha interrotto il racconto dei vecchi esclamando: “Io sono lontano mille miglia dalle vostre storie”. Gli astanti l’hanno squadrano da capo a piedi stupefatti, e sono rimasti ancora più sbalorditi allorché il giovane ha dichiarato: “Dio? Dio forse non esiste affatto”. Un anziano, dai capelli bianchi come le nevi del Kilimanjaro, lo ha bollato furioso con occhi di fuoco: “Dio non esiste! Ma tu chi sei? Di chi sei figlio? Cretino, cretino!”. Inoltre Kazimoto non conosce perdono. Un suo eventuale nemico lo ammazzerebbe quasi senza pensarci. Una sera Kazimoto incontra Sabina, una ragazza protestante e praticante. I due si innamorano e si sposano in chiesa secondo la fede cattolica. Però il cuore di Kazimoto è zeppo di paure. Sabina resta incinta, ma il bambino nasce morto. - Moglie mia - la chiama Kazimoto. - Eccomi, marito mio - risponde Sabina. - Sabina, io non so perché vivo. - Kazimoto, mi stanchi con le tue stupide considerazioni. Non puoi vivere come tutti? Tu chi sei? - Non lo so - risponde Kazimoto. - Certo non immaginavo che tu fossi “una testa vuota” così. Proprio non lo immaginavo... Trascorrono pochi giorni, e Kazimoto si suicida lasciando il seguente biglietto: “Mi sono impiccato. Non potevo sopportare di generare altri figli. Inoltre non ho trovato alcuna differenza fra me e gli animali. Non ho mai incontrato alcuno che credesse che Dio esistesse...”. L’africano ama la vita? La storia di Kazimoto è tratta dal romanzo Kichwamaji, scritto da E. Kezilahabi. (“Kichwamaji”: termine swahili che significa “testa d’acqua” o “testa vuota”). Il romanzo Kichwamaji venne pubblicato 40 anni fa. Nel 1974 quanti tanzaniani ritenevano che un africano potesse suicidarsi? Pochissimi. Forse nessuno. Negli anni “settanta” (e non solo) i mass media del Tanzania non riportavano casi di suicidio. Al contrario, tutti (intellettuali compresi) sostenevano che l’africano amasse la vita in modo viscerale, a prescindere dall’esistenza grama che conducesse. L’amore e il rispetto per vita sono cardini della cultura africana, e la Chiesa non manca di sottolinearlo. Nel documento relativo al primo Sinodo dei vescovi africani, svoltosi a Roma nel 1994, si legge: “La vita viene rispettata sempre dalla nascita alla morte” (cfr. “Karibu nyumbani Sinodi ya Afrika”, V/3). Il secondo Sinodo per Africa (Roma 2009) ribadisce l’amore e il rispetto per la vita. Tuttavia i vescovi africani riconoscono pure i fardelli che gravano sull’esistenza degli uomini e delle donne del nostro tempo. Il ricorso a droghe ed alcoolici minano alle radici la vita dell’africano, per non parlare delle piaghe endemiche della malaria, tubercolosi e aids che “ingoiano le persone e scardinano a livello elevato la vita sociale ed economica” (cfr. “Africae munus”, 72). Perché proprio io? Oggigiorno in Tanzania il problema “suicidio” balza pure sui giornali. Così non era 30-40 anni orsono. Il quotidiano “Mwananchi” dell’11 settembre 2013 scrive e si domamda: “Perché la gente si suicida?”. Secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità, ogni anno si contano in media nel mondo un milione di suicidi: 3 mila al giorno. In Tanzania (con 45 milioni di abitanti) si registrano 700 suicidi all’anno: riguardano soprattutto i giovani di 15-25 anni. Il suicidio è da ascriversi a delusioni amorose, a tensioni familiari e sociali. Un’altra ragione che scatena il suicidio è l’aids ed altre patologie incurabili. I segni che annunciano “la morte procurata” sono lo scoraggiamento personale, i frequenti mutamenti di umore, il distacco dalla propria famiglia, la mancata risposta a vari “perché”. Parecchie persone si tolgono la vita non perché amano la morte, bensì perché non sopportano più eventi che sconvolgono la loro esistenza. Molti prima di suicidarsi lasciano il seguente messaggio: “Meglio morire piuttosto che trovarsi in alcuni frangenti. È troppa la vergogna. Non posso sopportarla. E poi: perché tutto questo capita proprio a me?”. Così la delusione e la tristezza invadono il cuore, e la si fa finita per sempre. Un atteggiamento di misericordia Che cosa afferma la Chiesa cattolica sul suicidio? Ricordando il quinto comandamento “non uccidere”, la Chiesa non può approvare il suicidio. Il suicidio è un peccato contro l’amore di Dio, contro il prossimo e contro se stessi. Tuttavia “gravi disturbi psichici, l’angoscia o il timore grave della prova, della sofferenza o della tortura possono attenuare la responsabilità del suicida” (cfr. “Catechismo della Chiesa Cattolica”, 2280-2282). Il citato catechismo prosegue: “Non si deve disperare della salvezza eterna delle persone che si sono date la morte. Dio, attraverso le vie che egli solo conosce, può preparare loro l’occasione di un salutare pentimento. La Chiesa prega per le persone che hanno attentato alla loro vita” (“Ibid.”, 2283). Parole di misericordia, che è il nocciolo dell’amore. E i missionari, che annunciano la gioia contro ogni tristezza, devono essere in prima linea nell’assumere un atteggiamento di consolazione-comprensione specie di fronte al suicidio. Il beato Giuseppe Allamano, fondatore dei missionari della Consolata, raccomandava: “Non lasciamoci dominare dalla tristezza. Nei giorni tetri e nelle ore buie della vita non lasciamoci sopraffare dalla tristezza. Sforziamoci di vivere sempre nella speranza... Preghiamo lo Spirito Santo che ci aiuti a correggere il nostro carattere”. Ebbene: non essere “una testa vuota” (kichwamaji), come il giovane Kazimoto, perché, quale creatura di Dio, non lo sei affatto. _____________________________________ 1) Cfr. E. Kezilahabi, Kichwamaji, EAPH, Dar Es Salaam 1974 a cura di Marianna Micheluzzi (Ukundimana)

mercoledì 18 dicembre 2013

Sadia /La venditrice di uova sode

Vendere uova sode al mercato è uno dei tanti mestieri informali praticabili dalle donne africane. Specie di questi tempi poi che, come in Centrafrica, la situazione politica è davvero terribile e fortemente confusa, con povertà e morte, in cui puoi incappare ad ogni breve passo. E i negozi , quei modesti empori di una volta, non esistono più. Nemmeno a Bangui,la capitale. Se non devastati e con gli scaffali ormai vuoti, dove insetti d’ogni genere passeggiano indisturbati nel buio interno e nel tanfo insopportabile ,dovuti a una lunga incuria per l’ abbandono precipitoso di quelli che erano proprietari. Sadia, la “vedova” come la chiamano i suoi conoscenti ( lei per loro è una straniera e lì ,al paese e nel villaggio di suo marito, appunto non ha alcun parente), è riuscita a mettere in salvo,adiacente alla casa di fango, che si erano costruiti, lei e il suo uomo, appena sposini, almeno il pollaio con alcune galline, che le regalano generosamente, a giorni alterni, delle uova. Sadia è una vedova bianca, perché il suo uomo, partito anni fa in cerca di lavoro per il sud del continente (Sudafrica, Zimbabwe o forse Tanzania) non ha più dato notizie di sé. E lei ora ha da accudire tre bimbi: due maschi e una femmina, nati a scala. E cioè ciascuno di essi uno o due anni dopo l’altro. La fame si fa sentire e in qualche modo Sadia deve trovare il modo di placare il borbottio degli stomaci vuoti dei suoi figli. Ma lei è una donna di forte temperamento,che non si scoraggia mai. Il suo cervellino è attivo di giorno e di notte. Così, tra un pensamento e l’altro, decide di conservare,non utilizzandole per un po’, alcune di quelle uova e di farle sode, per poi andarle a vendere in città, a Bangui, nel mercato all’aperto. Con il ricavato potrebbe provvedere alle non poche altre necessità impellenti della famiglia. I bambini, è cosa nota, hanno bisogno di tutto. Dai quaderni per la scuola ai medicinali quando arrivano febbri e tosse. E quando non c’è un uomo che porta soldi in casa, bisogna necessariamente ingegnarsi. Ben organizzata, con tanto di vassoio, un regalo di nozze di anni addietro e ben conservato, Sadia parte di buon mattino, perché laggiù per affrontare i lavori e fare risultato è importante fare i conti con la durata della luce del sole. Trovato il suo spazio, inizia la mostra della sua mercanzia e lancia ripetuti richiami ai passanti. Non è facile, a dire il vero, vendere perché in città serpeggia la paura di assalti improvvisi e la situazione non è affatto tranquilla. Ogni tanto qualche ambulanza si ferma dinanzi all’ospedale di Emergency, l’unico funzionante a Bangui, e scarica feriti. Cristiani e musulmani intransigenti, si sa, si scannano come bestie,inaspettatamente e senza troppi complimenti. E lo fa tanto una parte quanto l’altra. La gente, uomini o donne che siano, non indugia affatto alle bancarelle. Ha fretta solo di sbrigare rapidamente le proprie commissioni e mettersi al riparo dai pericoli. Ma,dopo alcune ore, un tempo interminabile per Sadia e, per giunta, sotto un sole impietoso, qualcuno si ferma,contratta il prezzo e acquista l’intero vassoio di uova. Una manna dal cielo. Incredibile- pensa tra sé la donna – e stringe tra le mani il mucchietto stropicciato di banconote. E’ un uomo giovane, una figura distinta ed è anche troppo ben vestito per il contesto. Nel cuore della donna alberga soltanto la gioia del ritorno al villaggio dai figli, che l’attendono. Incurante del lungo percorso a piedi, prende di filato la strada di casa con passo deciso e intanto pensa di ripetere altre volte ancora la medesima esperienza. Farà felice i suoi bambini di certo ma, assieme all’ingrato lavoro dei campi per cui si deve guardare sempre e di continuo il cielo e attendersi la pioggia, Sadia ha scoperto che c’è un altro modo per fare qualche soldo con onestà. Anche senza l’appoggio indispensabile di un uomo. Basta un po’ di pazienza e un po’ d’intraprendenza. E, soprattutto, salvaguardare dai male intenzionati le sue galline come si fa con un tesoro prezioso. La gente di buon cuore, anche se si è poco propensi a crederci, s’incontra talora pure nell’inferno di miseria e di povertà come può essere quella di una situazione di guerra e di devastazione. L’umanità sorprende sempre. Quell’umanità che si chiama anche “Provvidenza”. (m.m.)

martedì 17 dicembre 2013

Dar es Salaam (Tanzania) /Gli Auguri di Baba Francesco

LUI, LEI E JOYCE /// “Ahi, serva Italia di dolore ostello... non donna di province, ma bordello” (Dante Alighieri). Proprio così: bordello. L’Italia è un casino di forconi che rompono, di grillini che insultano, di berluska che ricattano, mentre tanti altri non sono farina da far ostie. E se ne fregano del dolore che attanaglia il cuore delle tantissime vittime della crisi sociale. Questa è l’Italia sulla quale piango anch’io dal Tanzania. Ma è pure il paese al quale qualcuno annuncia: “Oggi è nato per voi il salvatore”. È un Bambino-Dio. Carissimi amici, facciamo posto a questo Bambino-Dio. Ci conviene nel bordello dell’Italia e del mondo. Buon Natale a tutti. - Molti di voi mi scrivono: raccontaci qualcosa di te stesso. Ebbene, quando dico che sto bene, cosa volete di più nel presente “ostello di dolore” dell’universo? - Altri mi chiedono: quando verrai in Italia? Risposta: per la quaresima-pasqua del 2014 sarò a Torino, oltre che a Falzé. I miei occhi, color pesce stracco, sono vittime della cataratta, e dovrò operarmi. Ve lo immaginate un giornalista come il sottoscritto, che deve leggere e scrivere in swahili, con gli occhi che fanno cilecca? - Altri ancora, gentilissimi, mi hanno augurato: buon compleanno. Già, ho compiuto 70 anni. Ho letto il salmo 90 (89), che recita: “Gli anni della vita sono 70, 80 per i più robusti, ma il loro agitarsi è fatica e delusione”. No, amico salmista, i miei 70 anni non sono stati “fatica e delusione”, bensì lavoro e consolazione, nonostante tutto e tutti. Compiendo 70 anni, ho pure pensato alla morte. A proposito chiedo: la bara meno costosa, nessun fiore, nessuna predica. Al termine della preghiera, se potete, cantate un inno alla Madonna. Seppellitemi dove muoio. E che il Buon Dio mi usi misericordia. Come sapete, sono un missionario giornalista e “procuratore”. “Procuratore” significa: se un missionario confratello deve partire, gli “procuro” il biglietto; se ha bisogno di un filtro per l’acqua, glielo “procuro”, se necessita di un pezzo di ricambio per l’auto in panne, glielo “procuro”, eccetera, eccetera. Inoltre accolgo i parenti e gli amici che visitano i missionari in Tanzania. Lavoro con Nadia, missionaria laica della Consolata. Durante la scorsa estate sulla porta della casa-procura di Dar Es Salaam si sono affacciate numerose persone, anche discutibili. Lui e lei si sono presentati così: “Cerchiamo un posto per meditare la parola di Dio”. Vanno in cappella. Dopo mezz’ora sono ancora là, in silenzio. Lei parla con uno sguardo luminoso e lungimirante e lui risponde con occhi dolci e sicuri. Lui e lei, giovani morosi, con la Bibbia in mano. Finalmente Joyce arriva. Ma, a dispetto del suo nome, è stravolta. Ha camminato due ore sotto il sole spietato di Dar Es Salaam. “Padre, scusa: sono in ritardo di due ore sul lavoro. Domani resterò a casa, perché non ho soldi per pagare l’autobus. Aspetterò fino alla fine del mese, quando prenderò la paga”. Vedo gli occhi di Joyce gonfi di lacrime e fatica. Metto una mano in tasca e trovo qualcosa... Un giorno a quel Bambino-Dio, nato in una stalla di Betlemme, qualcuno offrì oro, incenso e mirra. Ed io che dovevo fare di fronte alla stanchissima Joyce?/// p. Francesco Bernardi, missionario della Consolata P. O. Box 4885 Dar Es Salaam

lunedì 30 settembre 2013

La iena e lo sciacallo / Chi troppo vuole nulla stringe

Un giorno qualunque di un anno qualsiasi (nelle favole non importa mai quale sia) una iena, che passeggia per caso in una foresta di baobab, s’imbatte in una gazzella,oramai priva di vita. Leccandosi i baffi dal prepotente desiderio, immagina già il suo gustoso pranzetto di mezzodì. All’improvviso, però, avverte in lontananza il”noto” calpestio, che indica il sopraggiungere delle altre sorelle iene. Prima che esse potessero essere da lei, la “nostra”, che teme di perdere in un battibaleno la “sua” ghiottoneria, le precede e s’affretta ad andare loro incontro, mentendo sul fatto che, a qualche miglio da lì, c’è di certo un gregge di pecore, tutte morte, che possono rappresentare un’autentica goduria per saziare l’appetito. E le credulone, affamate come sono, non ci pensano affatto su due volte e le danno ascolto all’istante. E via , di corsa, in branco si muovono nella direzione opposta. Intanto la “nostra” , tranquillizzata, ritorna dove aveva scoperto la gazzella. E, sorpresa delle sorprese, il suo “ pranzetto” lì, in quel punto, proprio lì, non c’è più. Era accaduto che, durante l’ assenza, uno sciacallo ( il “fattaccio” glielo rivela un rapace di passaggio,che è in sosta sul ramo di un baobab), che non è meno avido e predone delle iene, aveva pensato lui a banchettare con carne di gazzella tenera senza neanche attendere il mezzogiorno.(m.m.)

martedì 10 settembre 2013

Milano /"Women in Business" /Africane e no

Milano / “Women in Business” /Africane e no Il prossimo 17 settembre, al Piccolo Teatro Strehler di Milano, è attesissima la conferenza, organizzata da Deutsche Bank Italia in partneship con l’Eni, che vedrà affrontare con il pubblico presente in sala (maggioritarie saranno senz’altro le presenze al femminile) sette donne leader (africane e no), ciascuna esperta del proprio ambito lavorativo, intorno al tema del cosiddetto sviluppo “sostenibile”. L’incontro è previsto articolato (si partirà come orario nel primo pomeriggio alle 15,30) in due momenti di riflessione , ciascuno dei quali sarà sempre preceduto da un video breve, il quale mirerà a sottolineare lo specifico di un confronto tra le differenti economie africane e quelle europee. E questo, ancora una volta, nella convinzione che una collaborazione fruttuosa (Europa-Africa), in un clima che sia di pace e di autentica democrazia, possa pagare .E anche bene. E per entrambe le parti in causa. L’Eni in Africa ha un’esperienza professionale sul campo molto provata e di vecchia data, senza sottovalutare per questo, accanto alle luci, le immancabili ombre, che pure ci sono state e che nessuno intende negare. Resta, però, che il continente africano presenta per noi europei alcuni elementi distintivi che devono contare. Elementi che non ci possiamo permettere di trascurare con i tempi che corrono. E che semmai, con modestia, sarebbe il caso di tenere ben presenti. Nel ruolo lavorativo al femminile, ad esempio, le donne africane fanno registrare un tasso di crescita, negli ultimissimi anni, addirittura di molto superiore a quello europeo (le statistiche in possesso di Ban Ki-moon, segretario generale delle Nazioni Unite, per l’Italia ci dicono, addirittura, che essa risulta essere all’80’ posto dopo il Ghana e il Bangladesh). E, dando tempo al tempo, si perverrà per tutte le donne dei Paesi in via di sviluppo anche all’accesso allargato di beni e servizi proprio come già accade, al momento, in Europa e in altre parti del pianeta. E, a dirla tutta e bene, l’impegno delle donne africane non riguarda solo l’artigianato, la piccola industria e/o il commercio o le professioni ma anche la politica. Nel Rwanda di Paul Kagame si registra da molti anni, e senza tema di smentite, la più alta percentuale di donne in Parlamento rispetto ad altri Paesi nel mondo. Ritornando al meeting di Milano (Women in Business and Society), esso giunge per la prima volta in Italia. Sono attese dall’Africa, in particolare, la liberiana Leymah Gbowee, Premio Nobel per la Pace e, soprattutto, direttore di “Donne per la Pace e la Sicurezza in Africa”e la mozambicana Esperanca Bias, ministro delle risorse minerarie del Mozambico, che entrambe parleranno dell’importanza dello sviluppo energetico, che all’Africa oggi fa problema e, quindi della partnership pubblico-privato. Oltre alle africane ci saranno un’islandese (l’Islanda per molti di noi è assolutamente un mondo sconosciuto e tutto da scoprire), una cubana e numerosi importanti nomi di italiane,alcuni dei quali noti anche al grosso pubblico come Paola Severino, docente di Diritto Penale e già ministro della Giustizia, e Suor Giuliana Galli, membro del Consiglio generale della Compagnia di San Paolo. Conduttrice dell’incontro e moderatrice degli interventi sarà la nota giornalista di Rai News24, Monica Maggioni, affiancatae supportata nello specifico di alcuni contenuti di settore, per l’intera durata ,da Paolo Scaroni (amministratore delegato Eni) e da Flavio Valeri (amministratore delegato Deutsche Bank Italia). E tutto perché, anche il superare le differenze di genere nel campo lavorativo, vuol dire oggi promuovere quella crescita responsabile, che tutti auspichiamo, capace di guardare lontano. Molto lontano. Fare divenire , insomma, il”futuro” un po’ più “presente”. E “donna” che lavora è più bello. //(m.m.)