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venerdì 7 marzo 2014

AFRICA OGGI / LONTANA DAI NOSTRI STEREOTIPI

Il problema del suicidio in Africa NON SEI UNA TESTA VUOTA Ogni anno, nel mondo, oltre un milione di persone si tolgono la vita. E circa 700 in Tanzania. In Africa perché si suicidano? Perché ritengono di essere “teste vuote”. Ma per il Buon Dio nessuno è “una testa vuota”. di FRANCESCO BERNARDI, missionario in Tanzania Kazimoto e Sabina Kazimoto è un giovane di 30 anni, insegnante in un liceo. È cattolico, però il cristianesimo non è penetrato nel suo cuore e non ha cambiato il suo carattere frivolo, specialmente a livello morale: infatti spesso e volentieri frequenta il pub del villaggio tracannando birra e, se trova una ragazza, se la porta a letto senza alcuno scrupolo. Anche la tradizione non incide più di tanto nel comportamento di Kazimoto. Ieri ha incontrato un gruppo di anziani del villaggio, che hanno rammentato la vita del passato: hanno ricordato le storie dei capitribù, di personaggi fantastici che si arrampicavano sugli alberi con una sola mano e di una femmina con la coda, piovuta dal cielo, che generò diversi figli e poi scomparve. Kazimoto ha interrotto il racconto dei vecchi esclamando: “Io sono lontano mille miglia dalle vostre storie”. Gli astanti l’hanno squadrano da capo a piedi stupefatti, e sono rimasti ancora più sbalorditi allorché il giovane ha dichiarato: “Dio? Dio forse non esiste affatto”. Un anziano, dai capelli bianchi come le nevi del Kilimanjaro, lo ha bollato furioso con occhi di fuoco: “Dio non esiste! Ma tu chi sei? Di chi sei figlio? Cretino, cretino!”. Inoltre Kazimoto non conosce perdono. Un suo eventuale nemico lo ammazzerebbe quasi senza pensarci. Una sera Kazimoto incontra Sabina, una ragazza protestante e praticante. I due si innamorano e si sposano in chiesa secondo la fede cattolica. Però il cuore di Kazimoto è zeppo di paure. Sabina resta incinta, ma il bambino nasce morto. - Moglie mia - la chiama Kazimoto. - Eccomi, marito mio - risponde Sabina. - Sabina, io non so perché vivo. - Kazimoto, mi stanchi con le tue stupide considerazioni. Non puoi vivere come tutti? Tu chi sei? - Non lo so - risponde Kazimoto. - Certo non immaginavo che tu fossi “una testa vuota” così. Proprio non lo immaginavo... Trascorrono pochi giorni, e Kazimoto si suicida lasciando il seguente biglietto: “Mi sono impiccato. Non potevo sopportare di generare altri figli. Inoltre non ho trovato alcuna differenza fra me e gli animali. Non ho mai incontrato alcuno che credesse che Dio esistesse...”. L’africano ama la vita? La storia di Kazimoto è tratta dal romanzo Kichwamaji, scritto da E. Kezilahabi. (“Kichwamaji”: termine swahili che significa “testa d’acqua” o “testa vuota”). Il romanzo Kichwamaji venne pubblicato 40 anni fa. Nel 1974 quanti tanzaniani ritenevano che un africano potesse suicidarsi? Pochissimi. Forse nessuno. Negli anni “settanta” (e non solo) i mass media del Tanzania non riportavano casi di suicidio. Al contrario, tutti (intellettuali compresi) sostenevano che l’africano amasse la vita in modo viscerale, a prescindere dall’esistenza grama che conducesse. L’amore e il rispetto per vita sono cardini della cultura africana, e la Chiesa non manca di sottolinearlo. Nel documento relativo al primo Sinodo dei vescovi africani, svoltosi a Roma nel 1994, si legge: “La vita viene rispettata sempre dalla nascita alla morte” (cfr. “Karibu nyumbani Sinodi ya Afrika”, V/3). Il secondo Sinodo per Africa (Roma 2009) ribadisce l’amore e il rispetto per la vita. Tuttavia i vescovi africani riconoscono pure i fardelli che gravano sull’esistenza degli uomini e delle donne del nostro tempo. Il ricorso a droghe ed alcoolici minano alle radici la vita dell’africano, per non parlare delle piaghe endemiche della malaria, tubercolosi e aids che “ingoiano le persone e scardinano a livello elevato la vita sociale ed economica” (cfr. “Africae munus”, 72). Perché proprio io? Oggigiorno in Tanzania il problema “suicidio” balza pure sui giornali. Così non era 30-40 anni orsono. Il quotidiano “Mwananchi” dell’11 settembre 2013 scrive e si domamda: “Perché la gente si suicida?”. Secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità, ogni anno si contano in media nel mondo un milione di suicidi: 3 mila al giorno. In Tanzania (con 45 milioni di abitanti) si registrano 700 suicidi all’anno: riguardano soprattutto i giovani di 15-25 anni. Il suicidio è da ascriversi a delusioni amorose, a tensioni familiari e sociali. Un’altra ragione che scatena il suicidio è l’aids ed altre patologie incurabili. I segni che annunciano “la morte procurata” sono lo scoraggiamento personale, i frequenti mutamenti di umore, il distacco dalla propria famiglia, la mancata risposta a vari “perché”. Parecchie persone si tolgono la vita non perché amano la morte, bensì perché non sopportano più eventi che sconvolgono la loro esistenza. Molti prima di suicidarsi lasciano il seguente messaggio: “Meglio morire piuttosto che trovarsi in alcuni frangenti. È troppa la vergogna. Non posso sopportarla. E poi: perché tutto questo capita proprio a me?”. Così la delusione e la tristezza invadono il cuore, e la si fa finita per sempre. Un atteggiamento di misericordia Che cosa afferma la Chiesa cattolica sul suicidio? Ricordando il quinto comandamento “non uccidere”, la Chiesa non può approvare il suicidio. Il suicidio è un peccato contro l’amore di Dio, contro il prossimo e contro se stessi. Tuttavia “gravi disturbi psichici, l’angoscia o il timore grave della prova, della sofferenza o della tortura possono attenuare la responsabilità del suicida” (cfr. “Catechismo della Chiesa Cattolica”, 2280-2282). Il citato catechismo prosegue: “Non si deve disperare della salvezza eterna delle persone che si sono date la morte. Dio, attraverso le vie che egli solo conosce, può preparare loro l’occasione di un salutare pentimento. La Chiesa prega per le persone che hanno attentato alla loro vita” (“Ibid.”, 2283). Parole di misericordia, che è il nocciolo dell’amore. E i missionari, che annunciano la gioia contro ogni tristezza, devono essere in prima linea nell’assumere un atteggiamento di consolazione-comprensione specie di fronte al suicidio. Il beato Giuseppe Allamano, fondatore dei missionari della Consolata, raccomandava: “Non lasciamoci dominare dalla tristezza. Nei giorni tetri e nelle ore buie della vita non lasciamoci sopraffare dalla tristezza. Sforziamoci di vivere sempre nella speranza... Preghiamo lo Spirito Santo che ci aiuti a correggere il nostro carattere”. Ebbene: non essere “una testa vuota” (kichwamaji), come il giovane Kazimoto, perché, quale creatura di Dio, non lo sei affatto. _____________________________________ 1) Cfr. E. Kezilahabi, Kichwamaji, EAPH, Dar Es Salaam 1974 a cura di Marianna Micheluzzi (Ukundimana)

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