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giovedì 31 maggio 2012

TINARIWEN / RIVOLUZIONARI CON CHITARRA





Chi sono costoro, esotismo di maniera a parte?
Un gruppo musicale maliano (ricordate l’Azawad?) costituito da giovani ed esperti musicisti che, dopo una lunga tourné in Europa(è stata toccata anche Milano), ancora una volta grida al mondo, perché lo ascolti, il suo bisogno di libertà.
Stato unitario ? Diritto all’autoderminazione? Giusto ? Sbagliato? Non è facile esprimersi da occidentali.
E questo grido, tradotto nelle musiche coinvolgenti e nei canti del deserto dell’ultimo album, dal titolo “Tassili”, è piaciuto e ha meritato persino un riconoscimento ufficiale come il Grammy Award.
Scusate se è poco.
Sono bravi e convincenti i Tinariwen, non c’è dubbio.
Peccato che “Tassili” sia stato registrato ,per forza di cose, nell’altipiano del Tassili N’Ajjer, nel sud- est dell’Algeria, perché il loro deserto, quello dell’Azawad è oggi occupato da presenze “scomode.”
Al-Quaida maghrebina, infiltratasi anche tra la gente pacifica del Mali, ha soffiato sul fuoco del malcontento del popolo Tuareg allo scopo di alimentare l’incendio e, a cose fatte,penserebbe di potersi poi accomodare sulle ceneri.
Ma i Tinariwen spiegano, a chi domanda loro, di volere solo indipendenza dallo Stato centralista. Niente affatto di pensare a cambiare “padrone”.
E ne raccontano tutte le ragioni con malinconico garbo nelle loro canzoni che, a loro dire, il mondo deve conoscere.
Per conoscere le ragioni della sofferenza del popolo Tuareg, che rischia ormai ,fantasma di se stesso, buono solo per la pubblicità nei “media”, presto o tardi di scomparire.

A cura di Marianna Micheluzzi (Ukundimana)

mercoledì 30 maggio 2012

FREETOWN (SIERRA LEONE) / CAHARLES TAYLOR COLPEVOLE E CONDANNATO





IL Tribunale dell’Aja ha finalmente emesso, oggi, la sentenza di condanna a 50 anni di reclusione per il liberiano Charles Taylor, il sanguinario signore della guerra, presidente della Liberia nel 1997, 64 anni suonati, responsabile di stragi e violenze praticate in Sierra Leone nella guerra civile, che vide l’intero paese devastato da guerriglieri sierraleonesi del RUF (Fronte rivoluzionario unito), con tutto il pesantissimo carico di morti ammazzati negli anni 1996 -2002.
Nella circostanza Taylor fornì armi ai ribelli in cambio di diamanti.
Le accuse nei confronti del “mostro”, ritornando a poche ore fa, comprendono ben 11 capi d’accusa, che vanno dalla violenza gratuita su gente inerme,a saccheggi, mutilazioni, stupri e quant’altro una mente assassina è in grado di concepire sadicamente.
I primi arruolamenti di bambini-soldato, ad esempio, sono opera, in Africa, proprio di Taylor.
E non solo in Sierra Leone.
Il processo, come ha voluto l’ONU, è avvenuto a Freetown, capitale della Sierra Leone, ad opera del TSSL e cioè il Tribunale Speciale per la Sierra Leone.
La condanna verrà però scontata in Gran Bretagna per accordi precedenti presi proprio tra L’Aja e il TSSL.
Nonostante la pesante gravità delle accuse mosse a Taylor, la Sierra Leone, infatti, non contempla quale pena la condanna a morte.
Pertanto egli, anche se il suo difensore si dichiara non d’accordo e ritiene eccesiva la pena, dovrà trascorrere comunque questi suoi ultimi cinquant’anni nelle carceri di sua maestà britannica.
Ma per Taylor non è certo finita. A suo carico ci sono anche altre imputazioni, che riguardano, nello specifico, gli anni della sua presidenza in Liberia(se ne parla ampiamente nel libro-testimonianza di Leymah Gbowee).
E’ giustizia terrena intramandabile nei confronti di chi ha perso assurdamente un marito, un padre, un figlio, una madre, una sorella.
Oppure ha subìto traumi psichici irreparabili o mutilazioni tali, per cui non ha più potuto condurre in seguito un’esistenza normale.
E tra Sierra Leone e Liberia, al di fuori del grosso novero dei morti ammazzati, coloro che vivono quest’inferno sulla terra sono veramente in tanti.
Rispetto dei diritti umani è anche questo:che il colpevole paghi per il male commesso.

A cura di Marianna Micheluzzi (Ukundimana)

"LA GUERRA" NELLE PAROLE DI LEYMAH GBOWEE / READING









Al mercato del pesce festeggiammo per ore: canzoni, preghiere, lacrime. Per settimane, quando camminavamo per strada con la maglietta bianca della WIPNET,la gente si fermava a stringerci la mano e a ringraziarci.
A volte ci seguivano cantando allegramente gruppi di bambini :”Vogliamo la pace, basta con la guerra”.
Eppure la paura era lenta a scomparire.
Era finita davvero?
I guerriglieri avevano firmato più di dieci trattati durante la guerra, quindi era difficile credere che quest’ultimo avrebbe retto.
Una guerra di quattordici anni non passa e basta.
Quando nei momenti di calma ci guardavamo intorno, ci rendevamo conto del disastro accaduto in Liberia.
Duecentocinquantamila morti, di cui un quarto bambini. Una persona su tre rifugiata, con trecentocinquantamila che vivevano nei campi profughi e gli altri ovunque avessero trovato riparo.
Un milione di persone, per lo più donne e bambini, erano a rischio malnutrizione, diarrea,morbillo e colera a causa dell’infestazione dei pozzi.
Oltre il 75% delle infrastrutture del Paese, strade, ospedali e scuole. Erano stati completamente distrutti.
Il danno psicologico era quasi inimmaginabile.
Un’intera generazione di giovani non aveva idea di chi fosse senza un fucile in mano.
Diverse generazioni di donne erano rimaste vedove, erano state stuprate o avevano visto stuprare le proprie madri o le proprie figlie e visti i loro figli uccidere o essere uccisi.
I vicini si erano rivoltati gli uni contro gli altri; i giovani avevano perso la speranza e gli anziani tutto quello che si erano faticosamente guadagnato.
Eravamo tutti traumatizzati.
Eravamo sopravvissuti alla guerra ma ora dovevamo imparare di nuovo a vivere.
La pace non è un momento, è un processo lungo.


Reading da “Grande sia il nostro potere” di Leymah Gbowe, racconto autobiografico in cui la “donna” Leymah è espressione della resistenza e della riscossa della società civile nel suo Paese, a partire esclusivamente dall’universo femminile,sia pure povero e straccione , contro le sofferenze imposte dalla Storia degli uomini.
Grazie a Leymah, che non è stata né moglie e neanche tanto adeguata compagna dei suoi uomini-amati e amanti, né madre-stereotipo ma molto amorevole, certamente, verso i suoi “cuccioli”, è stato possibile portare avanti una lotta in Liberia,che non è stata solo di genere ma che ha coinvolto per gradi, e con tanto impiego di testarda tenacia, l’intera società .
Maschi compresi. E non è poco.
Pagine da leggere e su cui riflettere perché si tratta sopratutto di una testimonianza scritta che, oltre ad essere un’autentica “zoomata” sul continente africano, con tutti i suoi prevedibili pregi e anche i suoi difetti , cooperanti e organismi internazionali inclusi nel grande calderone, invita l’esitante all’emulazione. Anche perché, quando sembra che nulla possa essere fatto in una situazione di estrema negatività, emerge, a sorpresa, contro ogni previsione, la parte migliore dell’umanità.

A cura di Marianna Micheluzzi (Ukundimana)

lunedì 28 maggio 2012

COMPASSIONE SOLIDALE / DA "RELIGIONI AFRO-BRASILIANE" DI HEITOR FRISOTTI





Come bianco o bianca ho la possibilità di ascoltare racconti sulla discriminazione e sul razzismo, di analizzare statistiche e raccogliere testimonianze ma non saprò mai che cosa vuol dire vivere da discriminato una vita intera e aprire gli occhi sulla coscienza nera e sulla dignità umana solo a vent’anni, o forse a sessanta.
Come uomo o donna posso rendermi conto delle discriminazioni sessuali, del potere e della violenza del maschilismo, ma difficilmente potrò sapere che cosa sono l’umiliazione, l’inferiorità e la sottomissine imposte e sofferte nella carne delle donne.
Come cristiano o cristiana, difficilmente mi accorgerò di come la mia esperienza di fede possa costituire per altri un’oppressione o una negazione di sé.
Solo chi è discriminato perché nero, perché donna, perché non cristiano, sa cosa questo significhi, sa cos’è vivere in questo paese (ndr.Brasile), sa quanto è ingiusta questa società.
La conversione è possibile. Si tratta di cambiare politica, trasformare dal di dentro la società sul piano culturale e anche affettivo cioè dei sentimenti nelle relazioni umane.
E’ necessario cominciare a comprendere la realtà muovendo dalla sofferenza dei neri, delle donne, dei non cristiani.
Il dolore diventa così uno dei principi ermeneutici fondamentali, al punto che possiamo affermare che chi non soffre non capisce.
Il soffrire insieme, la compassione e di conseguenza la consolazione, che ne scaturisce, è la sola maniera di avvicinarsi alla verità in una società attraversata da conflitti quella attuale.

A cura di Marianna Micheluzzi (Ukundimana)

venerdì 25 maggio 2012

MALI / UN PAESE MOLTO DISORIENTATO







Sono trascorsi parecchi giorni dal colpo di Stato in Mali (22 marzo scorso),quando un manipolo di militari,guidati dal capitano Amadou Sanogo, si sono impossessati appunto del Paese, motivando la violenza del gesto e le devastazioni, che ne sono seguite, casa per casa, con le precarissime condizioni in cui l’esercito regolare, da un governo in odore di forte e palese corruzione, veniva inviato a combattere al nord contro i ribelli dell’Azawad.
I partigiani golpisti dicevano, infatti, di voler rivendicare i morti. I soldati cioè i loro fratelli mandati allo sbaraglio e uccisi dal nemico in quanto male armati e male equipaggiati.
C’è stata poi, subito dopo, cessate finalmente per la buona pace della gente le ostilità più cruente, anche una scelta. Una scelta in verità non malvagia, concordata con i militari e approvatasuccessivamente dall’Ecowas ossia di un presidente ad interim, un civile,tale Dioncounda Traoré.
Ma il caos, a quanto è dato vedere e sapere, continua a tutt’oggi ad essere padrone indiscusso della situazione.
E soprattutto il rischio grosso, accanto ad una secessione molto discutibile tra nord e sud,che minerebbe pericolosamente l’unità di un Paese, il cui tessuto connettivo è sostanzialmente pacifico, è quello rappresentato da un islam intransigente, l’al quaida maghrebino, anche piuttosto diviso al suo interno che, dietro le rivendicazioni di facciata del popolo Tuareg, porta avanti la sua penetrazione di natura politico-religiosa nei territori sub-sahariani con tutto quello che ciò nei fatti può significare.
La ciliegina sulla torta poi è stata, in ultimo, la partenza improvvisa del presidente Traoré, l’uomo nuovo ma non troppo, per Parigi, giorni fa, ufficialmente per ragioni di salute, che sta consentendo in queste ore purtroppo ulteriore confusione e disorientamento.
In parole povere è vuoto di potere.
E’ inoltre l’occasione buona, a quanto parrebbe, per far rialzare la cresta di nuovo ai partigiani golpisti, uomini che caldeggiano per Amadou Sanogo la nomina a presidente del Mali.
In conclusione ci troviamo, in Mali, in una situazione fortemente instabile.
Da una parte abbiamo la popolazione divisa nella scelta e nell’appoggio politico a due diversissimi presidenti,un militare, che però deve ancora ricevere lo “stabat” dall’Ecowas(semmai lo riceverà), e il civile Traoré, pericolosamente fuori dal Paese.
Dall’altra c’è il grosso pericolo niente affatto da sottovalutare, a nord, degli islamisti, che avanzano equipaggiati di tutto punto, quanto ad armi e munizioni, grazie alle provvidenziali forniture di una vicina Libia ormai in dismissione.
E chi sta peggio di tutti in questo baillame è ovviamente la popolazione civile.
A nord, accanto ad agguati, violenze e rappresaglie per chi è contro gli islamisti, c’è anche la fame.
Infatti gli aiuti umanitari, internazionali e no, non sempre riescono ad arrivare a destinazione.
Nel sud, a Bamako e dintorni, c’è (ristrettezze economiche a parte ) una parvenza di normalità anche con la riapertura delle scuole e la ripresa delle attività commerciali. Ma si vive ugualmente nell’angoscia che qualcosa di imprevedibile e di terribile possa sempreaccadere da un momento all’altro.
Manca insomma la necessaria serenità del quotidiano. E non si sa ancora quando questa condizione cederà il passo soprattutto a quella che si chiama stabilità politica.

A cura di Marianna Micheluzzi (Ukundimana)

martedì 22 maggio 2012

ARTE SPAZIO / MAURIZIO BARRACO REGALA UN SOGNO










L’artista palermitano, Maurizio Barraco, nella città di Reggio Calabria, nei locali del “Nonsense”, ha in corso, attualmente, una mostra delle sue opere dal titolo, scanzonato e quasi certamente un po’ provocatorio, “Guardami…Sogno d’Estate”.
La mostra(vale per gli interessati) resterà aperta al pubblico fino al giorno 26 maggio e, lo dico subito, è una rassegna per coloro che, di sensi affinati e di cultura artistica di un certo spessore, sono in grado di andare sotto la pelle di un quadro.
Per chi, insomma, dal segno passa agevolmente al significante e poi al significato.
Per chi sa “leggere” la cosiddetta “arte concettuale”, che non si ferma alla “forma” ma è oltre la forma stessa nella lettura dell’intenzione comunicativa.
Contrariamente c’è il rischio di equivocare e far passare magari per pornografia ciò che da quest’ultima è lontano mille miglia. Come spesso è accaduto a Barraco in occasione di altri eventi artistici. Con ovvie successive smentite e relative scuse poi da parte di galleristi, critici e /o curatori.
In occasione dell’apertura c’è stata (e ha richiamato un folto pubblico) anche una performance, che ha visto protagonisti lo stesso Barraco e l’abile modella reggina Elisa Guarnaccia.
Le opere pittoriche esposte sono sopratutto le note “donne” di Barraco e il messaggio che l’artista ha voluto lanciare al suo pubblico e a noi, che lo conosciamo bene ,lo seguiamo da sempre e lo apprezziamo, è in sostanza quello del “Bello” per antonomasia, racchiuso in un corpo femminile.
Soprattutto il gioco del “saperlo scoprire” questo “Bello”.
Il “Bello” che è sogno e quindi piacere. Piacere dei sensi certamente e piacere dell’intelletto.
Un corpo femminile,qualunque esso sia,l’artista suggerisce che può divenire opera d’arte, proprio come accade quando il musicista esperto è in grado di trarre il meglio dei suoni in una frase musicale dal suo strumento. E non occorre che lo strumento sia necessariamente un prezioso “Stradivari”,né che l’altro sia un Nicolò Paganini.
Questo significa che “donna è bello”. E che la bellezza femminile va costruita nella reciprocità del rapporto a due. Nell’incontro con l’altro che non deve essere mai fatto di sopraffazione o di violenza. Ma semplicemente estrinsecarsi in autentico atto d’amore.
Questo assunto del pensiero, che Barraco condivide con il suo pubblico attraverso le sue opere e che è fondante della sua “poetica” pittorica, scaturisce, a dirla tutta, da una conoscenza diretta di donne sfruttate e emarginate, incontrate nei suoi viaggi in Paesi in via di sviluppo. Africa, America Latina, Europa dell’Est.
La risposta di Barraco all’oltraggio è insomma il “Bello”, che tutti dobbiamo imparare a disvelare.
La performance di cui sopra ha consentito, inoltre, a Barraco di mostrare nel concreto come nasce una “sua” opera, perché la modella Elisa si è prestata prima come tavolozza, lasciandosi ricoprire dal colore, e poi come pennello, imprimendo successivamente il suo corpo, a grandezza naturale, su di una enorme tela che l’artista, sotto lo sguardo attento del pubblico presente, ha in seguito completato.
In conclusione l’Arte di Maurizio Barraco, come lo stesso ha sottolineato più volte, nasce per comunicare e questa comunicazione sottintende una forte valenza pedagogica.
Il “Bello” contro le brutture e gli orrori della quotidianità è la sua risposta e quella che la persona, ogni persona, può dare.
Ma, perché ciò sia, occorre la volontà di un percorso di apprendimento che l’arte pittorica, ma anche le altre, possono dare.
Arte uguale equipaggiamento per affrontare la complessità del vivere.
Quasi una forma di scommessa fatta con, e non contro, il destino per non essere perdenti.




a cura di Marianna Micheluzzi

DONNE D'AFRICA / NASCE ONLINE UN SITO TUTTO AL FEMMINILE / PUO' BASTARE ?








La notizia”leggera” che può avere incuriosito gli utenti del web, quest’oggi, è forse quella che in Guinea Conakry è nato da pochissimo un sito internet,messo in piedi esclusivamente da alcune giovani giornaliste guineane, che si occupano di politica, economia e società, per parlarne ed informare in questo modo, comodamente e in casa propria, altre donne come loro.
Diciamo che si tratta di una scelta “di genere”, un sito “rosa” e la cosa in sé non è proprio male, considerando, nello specifico, che la donna africana, dovunque oramai, presa coscienza di sé e dei propri diritti di persona, desidera conoscere, accedere agli studi, costruirsi un avvenire proprio come avviene per l’uomo, avere cioè un futuro “suo” e certe sicurezze.
L’Africa tuttavia resta una realtà complessa. Più ci si avvicina ad essa con la dovuta serietà e più le cose, a dire il vero, si complicano.
Il divario storico ha un suo peso.
Perché , in un certo senso, per noi bianchi e di cultura occidentale, parlare di Africa è quasi quasi un voler forzare l’entrata in un mondo a “parte” , a meno che non si abbia l’umiltà di farlo con la dovuta discrezione, quasi in punta di piedi e con tanto rispetto del nostro interlocutore.
Le generalizzazioni non servono a nessuno. Convinciamocene. Sottraggono , non aggiungono. E offrono sempre una visione distorta del reale.
Perciò, in definitiva,perché l’impresa abbia l’esito per noi sperato, occorre approcciarsi con molta serietà a quest’Africa dalle mille lingue , dalle mille culture differenti e dalle mille tradizioni. Non sempre, è vero, del tutto comprensibili ma che comunque insegnano.
Insegnano anche a noi. Siatene pure certi.
In questi giorni, giacché io amo sempre conoscere in presa diretta, sto leggendo, come ho già riferito altrove, la biografia di Leymah Gbowee, una liberiana, nota anche nel nostro Paese, per aver meritato il Nobel per la Pace, insieme ad altre due donne impegnate quanto lei, perché con il suo sforzo è riuscita,come recita il sottotitolo, a liberare , il suo paese, la Liberia, dai postumi di una guerra terribile
E in Africa, credetemi, tutte le guerre sono terribili e senza sconti. Congo, Rwanda , anche il Mali dei nostri giorni e di queste ore : la differenza sta solo nel numero dei morti ammazzati e della ferocia praticata.
Avanzando nella lettura quello che mi ha colpito di lei, di Leymah, ma soprattutto di tutte le altre donne africane, che compaiono nella storia e che le ruotano intorno, è innanzitutto il coraggio, la forza d’animo, l’intraprendenza.
Personalità che non si arrendono. Mai paghe del traguardo raggiunto.
Aspetti dell’esistenza che noi abbiamo sicuramente dimenticato ma che forse hanno vissuto e messo in atto, più di noi, le nostre mamme e le nostre nonne. In Europa, nel secolo “breve”.
Quello dei due terribili conflitti mondiali.
Ebbene, nel privato di Leymah, c’è stata anche violenza, violenza privata, da parte di un uomo, un compagno, il padre di due suoi figli, nonostante il quale e nonostante le difficili circostanze, la donna reagisce. E reagisce molto bene. E diviene quella che noi oggi conosciamo. Senza piangersi addosso. Mai.
La trappola, come Leymah, definisce il suo incontro con Daniel, un ghanese incontrato in Ghana, in un campo per rifugiati, appunto durante la guerra liberiana, scatta quando lei,molto giovane, in una Monrovia spettrale, distrutta dalla guerra, non ha forza sufficiente per rendersi conto di cosa le possa cadere, accettando questa relazione e ,soprattutto, non comprende a che cosa sta andando incontro. Lei che amava l’indipendenza femminile e sognava soltanto la propria realizzazione professionale attraverso lo studio.
Dopo il corteggiamento, i ricchi doni di cui viene colmata, perché Daniel è uno dei pochi fortunati che in quel contesto lavora e ha molto denaro, seguono violenze, stupri domestici, umiliazioni, isolamento dal nucleo familiare d’origine di Leymah, tradimenti sfacciati, solitudine esistenziale.
E la via di scampo? La salvezza?
La salvezza, nonostante non abbia denaro a sufficienza per iscriversi a scuola e debba ricorrere a suo padre, lei orgogliosa,, viene a Leymah dalla volontà di frequentare un corso per assistenti sociali,istituito in città dall’Unicef, per aiutare le vittime sopravvissute al conflitto.
Nella frequenza delle lezioni e durante il tirocinio con donne come lei, duramente provate e per i più disparati motivi, Leymah riesce per gradi a leggere molto meglio il suo privato e a capire il da farsi necessario e indispensabile per sé e per i suoi figli, che ama sopra ogni cosa. Nonostante essi siano i figli di Daniel, il violento. Il” macho”. Il “compagno” padrone.
“Grande sia il nostro potere” è, allora, un libro che va assolutamente letto.
Le donne, noi donne, dobbiamo leggerlo.
Africane e non africane.
Questi pochi cenni vogliono solo essere un invito alla lettura.
Deposto il mouse, ogni tanto è importante anche aprire un libro.
Ritornando al sito delle giornaliste guineiane, il molto positivo è appunto una galleria di donne d’Africa famose, che viene proposta periodicamente alle internaute, e poi anche delle proposte giornaliere di notizie” leggere”, che suggeriscono ricette di cucina, musica, cinema, tv, bellezza.
L’importante, come spiega la direttrice editoriale ,Aisha Kader, è però che le donne, grazie a questo sito, possano dialogare tra loro, scambiarsi pareri, confrontarsi e, se è il caso, denunciare anche quello che non va nella quotidianità pubblica e privata.
Per poter individuare eventuali e praticabili strategie di cambiamento.
Per continuare a crescere su se stesse e sempre in meglio all’interno della propria realtà.
Senza andare alla ricerca di inutili quanto infruttuose vie di fuga.

Marianna Micheluzzi (Ukundimana)

lunedì 21 maggio 2012

JOHANNESBURG (SUDAFRICA) / QUANDO L'ARTE NON VUOLE ESSERE IPOCRISIA








Dovremmo essere tutti d’accordo sul fatto che le provocazioni sono il sale dell’Arte, specie se, per quanto ci riguarda, non vogliamo continuare a vivere risucchiati in quella caverna sociale, che “media” e “network” ci hanno costruito e continuano ,ogni giorno, a costruirci intorno.
Sforziamoci, allora, qualche volta di uscire, di andare fuori. Magari anche per mostre e musei. Proprio come risposta all’omologazione culturale dei nostri tempi.
E, per piacere però, non scandalizziamoci troppo in fretta, se certe performance ci paiono ardite rispetto a quelli che sono i nostri stereotipi culturali.
A Johannesburg, in Sudafrica, alla Goodman Gallery, è accaduto, ad esempio, che l’artista Brett Murray, un provocatore nato, ha osato esporre in questi giorni un acrilico dalle tinte forti e dal contenuto piccante, che ritrae niente di meno che Jacob Zuma ,il quale calandosi le brache, mette in bella mostra, disinvoltamente, i suoi genitali.
Messaggio esplicito di Murray al visitatore è che siamo di fronte ad un presidente del Sudafrica, non solo notoriamente poligamo e populista ma, anche e soprattutto, ad uno stupratore impunito, che riesce a farsi assolvere ,senza battere ciglio, persino nelle aule di tribunale, mettendo pure alla berlina le sue vittime.
E questo è solo quello che di un paese come il Sudafrica è dato sapere ufficialmente.
I retroscena,quelli che attualmente solo in pochi conoscono, e che riguardano la vita privata del presidente, prima o poi verranno fuori, magari a mandato scaduto( più prima che poi come molti laggiù si augurano vivamente),nella solita biografia del furbastro di turno.
Che non mancherà di arricchire il pennivendolo in questione e di appagare i maniaci di questo genere di notizie, disvelando altre squallide verità.
Intanto Brett Murray, che per adesso ha lanciato il “suo” sassolino, che certamente ha colpito nel segno e che si gode la notorietà, ha messo nei guai la Goodman Gallery, minacciata a muso duro dal clan di Zuma di processo legale, se il famigerato quadro non fosse stato subito ritirato dall’esposizione.
Niente da fare.
La Goodman Gallery ha risposto picche a questi e il quadro è lì, al suo posto come dall’inizio e vi resterà fino alla chiusura della mostra.
E qualunque sudafricano, o visitatore di passaggio, volendo può vederlo.
Intendiamoci bene che non si tratta certo di un capolavoro ma di un ritratto di maniera e che l’intenzione dell’artista era ed è essenzialmente quella di provocare e, contemporaneamente, di procurarsi notorietà.
Ma la verità vera, quella che si cela dietro la provocazione del ritratto di Brett Murray è che l’era politica di Zuma, che ha reso insopportabile l’esistenza a parecchi, sta facendo rimpiangere addirittura il passato coloniale.
Della serie “si stava meglio quando si stava peggio”.
E questo perché tante e tali sono le nefandezze morali, le ruberie a mano bassa e le ingiustizie plateali che la gente onesta vorrebbe, se potesse, cancellare nell’immediato, con un colpo di spugna, magari abrasiva, Zuma e la sua cricca dalla storia del Sudafrica.



a cura di Marianna Micheluzzi (Ukundimana)

IL DIALOGO CHE NON MI PIACE / DOM PEDRO CASALDALIGA SEGNALA








“Ci sono cattolici e protestanti ai quali non piace affatto la parola macroecumenismo. Il problema è che noi tendiamo a pensare che l’ecumenismo, che pure è così spesso disatteso, occupi tutto il campo possibile del dialogo”
“Le altre religioni, quelle “povere”, le consideriamo religioni di pagani. A me non piace, invece, dialogare con le “grandi religioni”. Non ci sono religioni grandi o piccole. Non è evangelico ritenere una religione valida solo perché è una grande religione. Al contrario è evangelico fare la scelta dei piccoli”.






a cura di Marianna Micheluzzi (Ukundimana)

DEROGA / QUALCOSA SU CUI RIFLETTERE POPRIO PERCHE' SCRIVIAMO












Anche se oggi l’argomento non riguarda direttamente l’Africa, di cui Jambo Africa si occupa strettamente e quotidianamente,proprio in virtù del fatto che abbiamo la pretesa dello scrivere, vale la pena di soffermarsi un attimo a riflettere sul contenuto brevissimo di un inedito del poeta Giovanni Giudici,di recente scomparso, pubblicato ieri su Domenica del Sole24Ore.
Scriveva Giudici nel settembre del lontano 1963 che l’insufficienza dei mezzi espressivi a nostra disposizione è soprattutto la nostra consuetudine con essi : e il nostro troppo folto vocabolario ci impedisce ormai di riconoscerle le parole. Sembrano tutte uguali.
E’ un po’-aggiungo io- come nella notte tutte le famose mucche hegeliane sono nere o come in una folla d’asiatici non siamo affatto in grado di distinguere un coreano da un giapponese o un cinese da un vietnamita.
In realtà- scriveva Giovanni Giudici – le parole non sono tutte uguali.
Siamo noi ormai quasi indistinguibili. E come le parole nemmeno i fatti della nostra vita riusciamo a distinguere: e questo sforzo che si compie (fare poesia) è semmai il tentativo di cogliere nei versi qualcosa di distinguibile delle parole e dei segni, qualcosa di distinguibile della vita.
Pensandoci bene certa ambizione di fare poesia (lo dico a me per prima che vi sono cascata quasi senza accorgermene) è una “cosa” troppo seria per essere alla portata di tutti. O quanto meno va praticata con professionalità e molta umiltà.
Perciò, nel mio essere “dilettante”, è perfetta la dicitura “quasi poesia”. Cioè solo tentativi di discernimento.
Nella vita e attraverso le “parole”.
E quelli vanno sempre bene. Per tutti. Me compresa.

Marianna Micheluzzi

domenica 20 maggio 2012

LA "DUE " GIORNI DEI PROFESSIONISTI CATTOLICI A BUNJU (TANZANIA)










Mentre scriviamo sta per terminare la “Due” giorni dei professionisti cattolici del Tanzania(19-20 maggio) ,i quali sono stati ospiti del Consolata Mission Centre di Bunju,a pochi chilometri da Dar es Salaam, una struttura d’accoglienza e centro interreligioso voluto anni addietro dai Missionari della Consolata di cui, in altre occasioni e per altre finalità, abbiamo già avuto modo di riferire.
Ma chi sono questi “professionisti” cattolici?
E perché quest’incontro ?
Per “professionisti “ cattolici s’intendono tutti coloro che, professionalmente preparati grazie agli studi fatti e ai titoli conseguiti, attualmente occupano, in Tanzania, importanti posti di responsabilità nel pubblico impiego e/o nel settore privato e sono in grado perciò di leggere la realtà del proprio Paese,discutendone insieme sia i pregi che i difetti, con l’obiettivo semmai d’impegnarsi, sempre e comunque, ad un cambiamento in meglio alla luce ovviamente di quelli che sono gli insegnamenti della Dottrina Sociale della Chiesa.
Sono persone, laici e laiche, espressione diretta della Conferenza Episcopale del Tanzania.
Ciò significa che ogni proposta da essi avanzata, soprattutto sul versante politico ma anche economico e sociale, è stata in precedenza anche argomento d’analisi e di dibattito nella Conferenza Episcopale da parte dei presuli.
Niente di nuovo, allora, o di diverso. Ma l’incontro al Consolata Mission Centre è il momento cementante di confronto laico collegiale,indispensabile, preceduto e seguito dall’ascolto della Parola, di quella che possiamo chiamare con appropriatezza progettualità concreta. Ossia del “come fare” e “con chi fare”.
Ovvero quali uomini e quali movimenti e partiti politici garantiscono ,oggi, in Tanzania, giustizia, sicurezza e stabilità per tutti, in prospettiva di una crescita autentica.
E possono pertanto essere considerati affidabili“compagni” di cordata.
Il loro compito, quello dei “professionisti” cattolici , è dare risposte valide,ciascuno nel proprio ambito di competenze e responsabilità, se si riesce a centrare per tempo l’obiettivo, perché soprattutto diminuisca la corruzione nel Paese di cui la gente comune continuamente, e non del tutto a torto, si lamenta.

a cura di Marianna Micheluzzi

sabato 19 maggio 2012

UNA LEPRE E UNA ZAPPA "QUASI MAGICA"












Sempre nel nostro ormai consueto villaggio abitava una lepre.
Un giorno ella decise di piantare per sé un orto per fare fronte ai periodi di penuria di cibo e la scelta cadde in prevalenza su delle graziose piantine di piselli, di cui andava molto ghiotta.
Per farsi aiutare invitò a collaborare una giovane antilope grigia, cui consegnò una zappa.
L’antilope sulle prime fece la preziosa e disse chiaramente alla lepre che lei preferiva dei fagioli selvatici ai piselli. Ma poi, di notte,senza timore, andava a sradicare, di nascosto, le piantine di piselli per portarsele nel suo di orticello.
Quando la lepre scoprì il fattaccio, la apostrofò da ladra e la licenziò immediatamente, facendosi tuttavia restituire la zappa.
Mentre camminava per smaltire la rabbia per essere stata gabbata da un’antilope, la nostra lepre s’imbatté in un gruppo di donne, che scavavano l’argilla nel terreno con dei rudimentali bastoni e , mossa a compassione,offrì loro la sua zappa.
Ma queste, invece di essere grate, al termine del lavoro spezzarono la zappa e, per non essere completamente scortesi, ripagarono la lepre con un vaso d’argilla fatto da loro.
Andando più avanti nel suo percorso la lepre incontrò ancora degli uomini, che raccoglievano il miele e che non avevano recipienti per deporvelo.
Così pensò bene di offrire loro il vaso d’argilla che però , uno di loro, al termine dell’operazione, malauguratamente fece cadere e rompere.
In riparazione da questi uomini molto maldestri alla lepre venne offerto invece un po’ di miele tra mille scuse.
Avanzando di qualche metro con il suo miele, la lepre vide nuovamente delle donne, che erano tutte impegnate ad impastare farina di mais per fare della pasta.
Poiché mancavano di dolcificante ,la lepre offrì spontaneamente loro il suo miele e chiese solo in cambio un pezzo di pasta dolce.
Quel pochino che riuscì ad ottenere, grazie alla generosità di una sola delle donne, la lepre , strada facendo, l’offrì a dei ragazzi, che pascolavano le capre e pare che non mangiassero da molti giorni.
Quest’ultimi, alla fine, per sdebitarsi regalarono alla lepre una bella e grassa capra.
Capra, che finì dai mandriani di buoi, i quali pare fossero anch’essi vittime di una terribile penuria di cibo.
Ma stavolta le cose non andarono per niente bene all’amica lepre.
I mandriani, infatti,senza un motivo preciso, forse per ingratitudine, la picchiarono così selvaggiamente da farla credere addirittura morta.
Ma fortunatamente così non fu.
La lepre infatti, dopo un po’ di tempo , si riprese e ,salita furtivamente su un alto albero nella radura dove erano accampati i mandriani, fece sparire tutta l’acqua della zona e con essa anche tutta la birra bionda e nera che fosse,che le donne preparavano e con cui gli uomini si dissetavano.
Le famiglie dei mandriani cominciarono così ad avere dei seri problemi.
Tutti ormai avevano sete e non trovavano più acqua per dissetarsi in nessun luogo e dovevano starsene sotto il sole impietoso. I bambini poi morivano e le mamme erano disperate.
Giorno dopo giorno le cose andavano di male in peggio fino a quando una delegazione di uomini e donne furono costretti ad andare a chiedere scusa e soccorso alla lepre.
Quest’ultima un po’ si fece pregare e non disse subito di sì. Poi però, chieste in cambio cinque anziane, che annegò nello stagno vicino, quasi magicamente fece in modo che tutto ritornasse come prima nello stupore attonito dei presenti.
E cioè acqua e birra a volontà per tutti e i bambini malati o morenti divennero di nuovo vispi e giocherelloni.
Proprio come prima.
E la lepre?
La nostra lepre, dopo i prodigi di cui aveva dato dimostrazione di essere capace di fare, regnò in quel luogo per lunghissimo tempo come un grande capo, amato, servito e riverito da tutti.
E morì di vecchiaia.










A cura di Marianna Micheluzzi (Ukundimana)

venerdì 18 maggio 2012

STEREOTIPI D'AFRICA NELLE PAROLE DI LEYMAH GBOWE NOBEL PER LA PACE / READING










Le storie di guerra dei nostri tempi sembrano tutte uguali, e non perché le circostanze sono analoghe,ma perché vengono raccontate nello stesso modo.
I comandanti si dichiarano sicuri di vincere, i diplomatici rendono dichiarazioni preoccupate e i combattenti – che siano soldati del governo o ribelli, che li si rappresenti come eroi o criminali – millantano, minacciano, brandiscono trofei raccapriccianti e sparano proiettili e stupidaggini in egual misura.
E sono sempre uomini.
Nel mio paese, la Liberia, la guerra civile è stata raccontata così.
Negli anni più duri del conflitto, gli inviati stranieri venivano spesso a documentarne gli orrori. Leggete i servizi, guardate i filmati : a fare da protagonista è sempre il potere della distruzione. Ragazzi, a petto nudo con mitragliatrici enormi, a piedi o a bordo di pick-up, sparano a tutto spiano, girano scatenati per le strade distrutte o si accalcano intorno a un cadavere con il cuore sanguinante della vittima in mano. Un giovane con gli occhiali da sole e il basco rosso guarda dritto nell’obiettivo della videocamera e dice con freddezza.”Vi uccideremo e vi divoreremo”.
Adesso guardate di nuovo le immagini, ma con più attenzione : osservate lo sfondo, perché è lì che trovate le donne.
Ci vedrete fuggire, piangere, inginocchiarci sulle tombe dei nostri figli.
Nei racconti tradizionali di guerra, noi donne siamo sempre in secondo piano La nostra sofferenza è solo una nota a margine della storia principale; quando parlano di noi è per citare casi umani. Se poi siamo africane, trovarci relegate dietro le quinte e descritte con compassione è ancora più possibile. Espressioni disperate, vestiti stracciati, seni cadenti. Vittime. E’ quella l’immagine cui il mondo è abituato, ed è quella che vuole vedere.
Un corrispondente dall’estero una volta mi ha chiesto :” Lei è stata stuprata durante la guerra liberiana?”
Quando ho risposto di no, ha perso ogni interesse per me.
Durante la guerra in Liberia, quasi nessuno ha descritto altri aspetti della vita delle donne : il fatto di nascondere figli e mariti ai soldati che li cercavano per reclutarli o per ucciderli, di percorrere chilometri a piedi in mezzo al caos alla ricerca di cibo e acqua per la famiglia, di andare avanti con la propria vita per avere qualcosa da cui ripartire quando la pace fosse tornata.
Quasi nessuno ha raccontato della forza che abbiamo trovato nella sorellanza, e di come abbiamo preteso la pace a nome di tutti i liberiani.






Tratto da "Grande sia il nostro potere"-Corbaccio editore






a cura di Marianna Micheluzzi (Ukundimana)



MALI / IN UNA PACE CHE SI INTRAVEDE DIFFICOLTOSA SPUNTA UN NUOVO "ATTORE"








Sono circa cinque mesi che la popolazione civile del Mali vive una conflittualità interna,disagi e sopraffazioni ,senza venirne a capo.
Due giorni fa, per giunta, Amnesty International ha pubblicato un circostanziato rapporto in cui, senza troppi peli sulla lingua,ha evidenziato tutte le violenze e tutti i soprusi,che sono stati compiuti nei confronti di civili inermi in diverse regioni e città del Mali.
E il Rapporto ,dal titolo “Cinque mesi di crisi tra rivolta armata e colpo di stato militare”, ha denunciato tutte le parti in causa ,senza distinguo alcuno, in quanto responsabili di quanto di più violento e più sopraffattorio è avvenuto e continua ad avvenire ai danni della gente comune quasi ovunque nel Paese.
E mi riferisco in particolare ai numerosi stupri,che sono stati praticati su donne indifese e di ogni età(vedi la città di Sevare, a 630 chilometri a nord di Bamako), accanto alle devastazioni delle abitazioni e alle solite ruberie, nonché pare addirittura ad alcune esecuzioni sommarie di persone innocenti.
Tutte opzioni che pare siano il diletto preferito dell’aggressore sull’aggressore.
E infine,i, ciliegina sulla torta, tra le file dei differenti gruppi armati combattenti, da una parte e dall’altra, islamisti o meno che fossero, sono stati avvistati numerosi bambini-soldato armati.
Ultima arrivata questa mattina ,e da fonte ben attendibile è la notizia, che potremmo leggere in positivo che è nato un nuovo gruppo armato, guidato da un noto colonnello, un certo Gamou, in precedenza a capo della guarnigione dell’esercito regolare a Kidal, che pare al momento operi nel nord del Paese.
Questo raggruppamento di uomini, di cui dovrebbero fare parte peul, songhai, tuareg e arabi, cioè i principali gruppi etnici del Mali, dovrebbe avere il compito e l’intento strenuo di bloccare i gruppi di matrice islamica presenti sul territorio e gli invasati di al Quaida maghrebina.
L’obiettivo sarebbe, purtroppo il condizionale è d’obbligo, quello di dare maggiore autonomia al nord del Mali e alle sue genti nel rispetto, si dice finora, dell’integrità territoriale complessiva.
In poche parole da questa formazione di Gamou potrebbero essere assorbiti anche i tuareg del Mnla(Movimento di liberazione dell’Azawad) e gli arabi del Fronte nazionale di liberazione dell’Azawad.






a cura di Marianna Micheluzzi (Ukundimana)

mercoledì 16 maggio 2012

ENENDENI / UNA RIVISTA CHE VALE UN TESORO





“Enendeni” è la giovanissima rivista dei missionari della Consolata del Tanzania,ultima nata in casa, rispetto alle altre “sorelle” sparse già da tempo in Africa e negli altri continenti.
Infatti la prima copia di “Enendeni” è andata in stampa appena nel 2003.
E non c’è affatto enfasi se, riferendoci ad “Enendeni”, la denominiamo con simpatia un “tesoro”, perché in effetti ”Enendeni”, che in swahili significa “andate”,dal noto perentorio “comando” di Gesù, redatta tutta in swahili, è finora una delle poche e valide riviste cattoliche, presenti sul territorio del Tanzania.
Una rivista, senza tema di smentita, fatta anche molto bene e questo fino dagli esordi. Apprezzata anche negli ambienti di cultura del Paese.
Il Tanzania, come del resto quasi tutti gli altri Stati africani( e noi lo sappiamo), presenta una popolazione giovanile numerosa, che sovente è curiosa e motivata, e che agogna e sogna, come è giusto che sia, lo sviluppo.
Certamente uno sviluppo all’africana ma proiettato anche un poco verso quella parte di mondo, da cui arrivano, ad esempio, le nuove tecnologie.
Quelle che tanto attraggono e che facilitano la sospirata comunicazione, specie lì dove le distanze tra un luogo e l’altro sono spesso notevoli e, quindi ,quasi impossibili da essere colmate agevolmente.
E conosce, mi riferisco sempre al mondo giovanile, pochi o molti che siano i propri mezzi economici a disposizione, anche l’importanza dell’istruzione e della necessità non tramandabile di un’adeguata formazione professionale, perché l’ obiettivo prefissato possa appunto essere raggiunto come nelle aspettative.
“Enendeni”, che si rivolge alla chiesa locale, perché cresca in animazione, grazie a sussidi specifici relativi a modalità di pastorale missionaria, è anche una proposta alla gente comune, che può trovarvi informazioni utili, stralci di spiritualità, testimonianze e tanto altro.
Attualmente però si offre in particolare ai giovani tanzaniani per accompagnare la loro crescita umana e civile in una società complessa ormai anche laggiù.
E’ uno strumento prezioso-alcuni giovani dicono.
E’ un po’ impegnativo ma ci piace leggerlo- incalzano, a conferma, altri.
E sono quei giovani, ragazzi e ragazze che, per disparati motivi, hanno avuto modo di frequentare degli incontri al “Consolata Mission Centre”, di Bunju, periferia di Dar es Salaam, un complesso residenziale nato anni addietro da un’idea di p. Giuseppe Inverardi, e che è anche sede della rivista.
Al “Consolata Mission Centre” trovano accoglienza e ospitalità le differenti confessioni religiose del Tanzania. E, talora, anche alcune rappresentanze della società civile come possono essere organizzazioni non governative, scuole, università, sindacati.
Gli sforzi dei missionari della Consolata in Tanzania allora, negli ultimi tempi, stanno andando e vanno proprio in questa precisa direzione.
Lavorare cioé per i giovani. Fare crescere e bene i giovani del Tanzania .Come voleva il maestro-presidente Julius Nyerere.
E la sfida , pur nella sua complessità, ha comunque fascino. E impegna più che attivamente chi l’ha lanciata.
Intendo l’impegno in dispendio di uomini(forze fisiche) e di mezzi(denaro).
In quanto, è cosa nota, che nulla nasce dal nulla.
”Enendeni” è una rivista, al momento, modesta nel formato e nell’impaginazione ma il nuovo direttore, p. Francesco Bernardi, già per tantissimi anni direttore di “Missioni Consolata”, in Torino, morde il freno e galoppa, perché sogna di farne presto una rivista pari e magari anche un tantino più “in” rispetto alle altre omologhe dell’istituto.
E certamente ci riuscirà con l’impegno e la serietà che lo contraddistinguono e che, chi lo conosce professionalmente, non può non riconoscergli.
Ne sa qualcosa anche il paziente tipografo di Dar es Salaam quando il nostro p. Bernardi, dimentico del “pole –pole” tanzaniano, gli piomba come un “tigre” in tipografia e non è certo parco di rimproveri e per la qualità delle immagini,che non rendono, come vorrebbe, oppure per i rimandi nei tempi di consegna.
Bisogna comunque tenere presente lo sforzo, che è decisamente di tutti, perché “Enendeni” arrivi puntuale tra le mani e nelle case di chi ha piacere di leggerla.
In Africa tutto è complicato-ci ricorda lo stesso p.Bernardi- quando, un po’ più indulgente, aggiusta il tiro nei confronti dei disservizi locali.
Spesso -aggiunge- mi tocca correggere le bozze a lume di candela specie quando l’elettricità sparisce per ore e ore e, a volte, magari per due giorni di seguito.
Pazienza- mi dico. Tutto è grazia.
Certo m’incavolo- prosegue- quando, dopo aver macinato chilometri e chilometri su strade impossibili, arrivo in tipografia e ciò che mi occorre non è pronto. Ma poi mi pento.
Mi compenetro. L’Africa ha i suoi tempi, anche storici, e noi europei i nostri.
L’importante è la consapevolezza di essere qui solo degli ospiti, mai padroni in casa d’altri.
E mantenere vivo il dialogo in ogni circostanza.
Un dialogo-conclude- che sia collaborativo e quindi fattivo da entrambe le parti.
Perché anche l’Africa,anche il Tanzania, insegna. E io sto imparando.”Enendeni”, il “tesoretto” dei simpatizzanti, mi costringe, infatti, giorno dopo giorno, non solo a calarmi nella lingua, e quindi nella testa e nel cuore dei tanzaniani ma , mentre insegno loro qualcosa, anche ad apprendere in cambio tantissimo altro, a mia volta.
E questo è bello e molto buono.

di Marianna Micheluzzi

martedì 15 maggio 2012

SOGNO E RISVEGLIO A KIMBIJI /LEGGERE POESIA







Colori forti e abbaglianti, odori intriganti, voci
chiassose e differenti .
Ciascuno è lì per il suo modesto
baratto quotidiano in un enorme mercato
a cielo aperto.
Uomini, donne, bambini e animali.
Tutti insieme.
E la maschera di un sorriso nasconde appena le pene.
Tra la folla sguardi attenti e quasi interrogativi,
avvolgono il forestiero di passaggio ed è quasi come,
posta la domanda ,essi fossero in attesa di risposta.
Sabbia, chilometri di spiaggia, sole impietoso.
E a un tratto il vento che increspa l’ azzurro cristallino del mare
e il pescatore che , paziente, traffica con il suo piccolo dhow.
Un tesoro per lui. Il “suo “tesoro.
Sopravvivenza in offerta “speciale” al turista.
L’uomo bianco stanziale, quello venuto da troppo lontano,
è intanto lì attonito e solitario e dipana il filo dei suoi pensieri.
Emozioni gli tolgono il respiro.
La “ creazione”è a portata di vista, di piede e , forse,anche di mano,
se non fosse per quei cenci decisamente così poco dignitosi,
che generano pensieri confusi e tanta rabbia.
Rabbia d’impotenza , per essere l’abitante di un pianeta assurdo
che ha non ha mai smesso, dopo secoli di storia,
di legittimare il “suo” sotto-sopra e ne ha fatto, da sempre,
con stupida supponenza,la propria bandiera.






di Marianna Micheluzzi

domenica 13 maggio 2012

POMERIGGIO- LIMBO / FANTASY IN QUASI POESIA





L’afa di questo pomeriggio quasi estivo grava su persone e cose.
E l’ immaginazione azzarda un paragone ardito
con il clima torrido di certi tuoi primi giorni difficili,
che da subito provai a immaginare.
Ma il confronto non regge.
La vita autentica con ferite da medicare
e forse qualche lacrima da asciugare
e pur ricca di carezze e sorrisi da donare
non si vive mai per procura.
E non ci sono né sconti di fine stagione, né offerte speciali.
Me lo ricordano ogni volta il prezzo della coerenza.
e le rughe d’espressione che ti segnano il volto.
Laggiù una interminabile strada bianca da percorrere ( se vuoi) ,
qualche uomo che pedala solitario e svogliato su di una vecchia bici,
sudato e magari anche un po’ alticcio
per qualche birra di troppo bevuta nel giorno di paga,
e donne, tante donne, a piedi, giovani “Marta”, con i loro fardelli,
e bambini ciarlieri che, facendo ad esse da corona,
simulano lotte quasi da super-eroi della tv.
Mondo omologato e irresponsabile.
E poi gli alberi ,arbusti scheletrici,
che pare gridino aiuto al passante
che invece tira dritto distratto o indifferente .
Qui da noi, di rimando, cellette tutte uguali, di cemento e mattoni,
dirimpettaie su file parallele, coloratissime e svettanti,
che avvolgono i loro prigioni ben accoccolati all’interno
e che all’apparenza tu diresti paghi d’ogni ameno diletto.
Lì insomma una gioia sofferta e a un tempo più schietta,
che nasce dalla interminabile sfida giornaliera col destino.
Qui fuga in quell’ approssimativa verosimile vita,
che ci piace credere unica vera e possibile.
Corni di un dilemma che provano a congiungersi.
Quasi sempre però senza riuscirvi.

di Marianna Micheluzzi

giovedì 10 maggio 2012

ALGERIA AL VOTO / CONTINUITA' O INNOVAZIONE ?







Oggi il popolo d’Algeria va alle urne. Si tratta di circa 24 milioni di cittadini, che devono scegliere i loro rappresentanti tra 44 formazioni politiche,storiche e nuove, e dieci liste indipendenti.
Tra i candidati le donne, nella nuova Algeria, sono 7646.
Dei 44 partiti 23 risultano essere proprio nuovi di zecca e i seggi in parlamento sono 462 per un totale di 25800 candidati.
L’ interrogativo è se si tratterà del solito voto pilotato in partenza, e quindi già annunciato, o esiste una minima speranza che qualcosa possa, stavolta, sul serio cambiare sulla scia delle “famose” primavere arabe, che però, com’ è noto, qualche delusione l’hanno comunque prodotta rispetto alle attese della gente comune.
Le aspettative, ed è giusto e normale, in tutta l’Algeria ci sono.
Molti giovani,infatti, quasi tutti studenti, in un Paese dove povertà e disoccupazione sono terribili autentiche realtà, ci contano sul cambiamento E per questo si sono da tempo impegnati e continuano a farlo, magari ricorrendo anche al tam-tam sui net-work, che altrove un qualche frutto l’ha già dato.
Altri invece,uomini e donne indifferentemente, soprattutto quelli più avanti negli anni, che fanno i conti giornalieri con la propria talora insostenibile precarietà, specie se padri di famiglia e mamme, sono più scoraggiati e ventilano l’ astensionismo dalle urne.
Nel 2007 addirittura solo il 37% degli aventi diritto andò a votare.
E’ probabile che i partiti islamici possano affermarsi e sarebbe la prima volta dall’indipendenza dell’Algeria dalla Francia.
La posta in gioco è comunque alta e per questo osservatori dell’Unione europea,Onu, Unione Africana e Lega araba, così come quelli di alcune Ong internazionali, faranno il loro controllo perché queste votazioni si svolgano con regolarità.
E auguriamoci che essi riescano soprattutto in nome di una democrazia, di cui l’Algeria sente davvero un forte bisogno unitamente ad una progettualità reale e traducibile in fatti concreti.
Ad alimentare una certa prospettiva di un cambiamento, al di là della nota presenza dei partiti islamici e del più che rodato FNL,al potere dal ’62, fa ben sperare anche il Fronte delle forze socialiste (Ffs), che si é presentato con i propri candidati dopo anni di assenza.
Attendiamo domani e incrociamo le dita.
Un’Algeria democratica e con una “marcia “ in più è senz’altro qualcosa di positivo anche per gli altri Paesi del Mediterraneo. Italia inclusa.

a cura di Marianna Micheluzzi (Ukundimana)

mercoledì 9 maggio 2012

ROMINA REMIGIO INTERVISTA FRANCESCO BERNARDI MISSIONARIO DELLA CONSOLATA






1 - Che cosa hai provato tornando in Tanzania? Cosa più ti ha sorpreso?

Risiedo in Tanzania da 15 mesi: troppo poco per esprimere giudizi e fare bilanci.
Pertanto le mie considerazioni sono impressioni. Quanto scrivo oggi, domani potrebbe essere diverso, senza escludere che possa aver preso qualche grosso granchio…

Sono ritornato in Tanzania dopo 35 anni di assenza. Lasciai il paese nel 1976 e vi ho rimesso piede nel 2011. La mia prima presenza durò dal 1973 al 1976.
Sapevo che il reinserimento in Tanzania sarebbe stato complesso. Così è stato e così è: a cominciare dalla lingua swahili, che si è arricchita di tanti e nuovi vocaboli. Fra questi, changamoto (sfida). Per me tutto è “changamoto” a 360 gradi, perché il tanzaniano pensa, parla e agisce a “modo suo”, in modo… sorprendente.
La prima sorpresa sono proprio i tanzaniani, oggi circa 44 milioni, mentre nel 1976 erano 14 milioni. Con loro ho la possibilità di “rinascere”, passando però attraverso “le doglie del parto” dell’incontro-scontro culturale.
Sorprendente è il numero dei loro giornali quotidiani. Negli anni 70 erano due, oggi una ventina. Ma molto più sorprendente è qualche voce critica della stampa. “Ci siamo stufati della propaganda dei politici che non vogliono il cambiamento” titolava, il 23 marzo 2011, il quotidiano Mwananchi. The Citizen, il 12 dicembre 2011, stigmatizzava: 32 milioni di euro sono “sfumati” nella celebrazione del cinquantesimo dell’indipendenza della Tanzania (1961-2011).
Le sorprese continuano: ad esempio, la pubblica denuncia di incesto subito da una figlia da parte del padre (programma radiofonico del 23-24 febbraio 2011).
“Ai miei tempi” fatti del genere venivano sepolti nell’omertà generale.
Omertà che avvolge ancora l’aids. L’uomo della strada non ne parla. Qualcuno, incalzato da eventi tragici, incomincia ad alludervi come “malattia di questi giorni”. La stampa si sofferma sulla vicenda di qualche sieropositivo, senza tuttavia raccontare come si contrae il virus. Però qualcuno incomincia a dire: “Sconfiggeremo l’aids se muteremo i nostri costumi sessuali”.
Ricordo, infine, la nozione di “ovvio”. Ciò che per me è “ovvio” non sempre lo è e nella stessa misura per il tanzaniano. L’“ovvio tanzaniano” è changamoto!

2 - Come vedi il futuro del Tanzania?

Pensando al futuro, non bisogna avere fretta né, tanto meno, invocare colpi di bacchetta magica di fronte ai mali che affliggono la società tanzaniana. Ciò vale per tutti i paesi in ogni angolo del mondo.
Chi può dire che la crisi economica italiana e mondiale finirà domani o dopo domani?
Personalmente scommetto nel futuro positivo del Tanzania. La buona volontà c’è. Le risorse pure: gas naturale, ferro, oro, pietre preziose, uranio. Grandi le possibilità nel settore turistico. Per non parlare della risorsa di sempre: l’agricoltura, anche se in balia della pioggia. Però la ricchezza delle ricchezze sono i 44 milioni di tanzaniani e tanzaniane (soprattutto). Moltissimi sono giovani, che studiano.
Recita un proverbio swahili: elimu ni mali (la conoscenza è un capitale).
Non basta il canto, il tamburo, la danza. Bisogna leggere, pensare, capire, scrivere e “formarsi”: soprattutto alla stregua del Vangelo. Carestie, guerre e aids sono emergenze crudeli. La “formazione” è prevenzione e cura di ogni miseria. Anche della “stregoneria”.

3 - Della stregoneria che dici?

Qual è il flagello dell’Africa subsahariana? La povertà generalizzata o la ricorrente siccità? La corruzione politica o la mancanza di progettazione? Oppure l’aids?
“L’aids” sembrerebbe la risposta più immediata e pertinente oggi. Invece no.
La grande calamità dell’Africa (e del Tanzania) è la stregoneria. Oggi come ieri.
Lo sostiene Gabriel Ruhumbika, scrittore tanzaniano, nel suo romanzo storico Janga sugu la wazawa (La piaga contagiosa degli indigeni).
Chi sono i clienti dello stregone? Sono i pezzi da novanta del governo, della finanza, del commercio, delle miniere d’oro e diamanti, della polizia, non esclusi preti e suore. Vanno da “lui” per sconfiggere il loro avversario o per aumentare il prestigio: la loro ricchezza, specialmente.
Contro il fenomeno della stregoneria è in atto una tortuosa guerra psicosociale. Si arriverà alla vittoria? Un proverbio swahili recita: penye nia pana njia (se c’è la volontà, c’è la strada).

4 - Come sta muovendosi la Chiesa locale?

La Chiesa gode di prestigio e di autorevolezza. Però preti e vescovi sono troppo assillati dal problema “soldi” per le loro attività. Le collette di denaro diventano sempre più frequenti: anche tre in una sola messa. I cattolici capiscono e rispondono bene, ma incominciano ad essere stanchi, perché la vita è costosa, dato il costante aumento del prezzo dei generi alimentari.
Pure le feste religiose (ordinazioni di sacerdoti, consacrazioni di vescovi, giubilei, ecc.) sono esageratamente costose. Non mancano i fedeli che si indebitano per partecipare ad una celebrazione. Tuttavia c’è un aspetto positivo: i cattolici, di fronte ad una iniziativa della comunità, non si tirano indietro, perché sanno che “la chiesa siamo noi”.
In genere i messaggi dell’episcopato cattolico sono incisivi anche politicamente. Nel presente dibattito per la nuova costituzione politica, i vescovi ammoniscono: “Alcuni leaders politici, invece di impegnarsi a scrivere una costituzione che difenda i beni e i diritti di tutti, specialmente dei bisognosi, cercano di tutelare solo il loro interesse; inoltre, introducono nella nuova costituzione idee contrarie al piano di Dio”.

5 - La posizione del cardinale Pengo e di padre Massawe

Attento e critico verso le forze politiche è, soprattutto, il cardinale Polycarp Pengo, arcivescovo di Dar Es Salaam. Nel 2011, in occasione del cinquantenario di indipendenza del Tanzania, dichiarò: “Durante questi 50 anni abbiamo ottenuto numerosi successi. Ora dobbiamo far sì che, quando celebreremo i 100 anni, non si dica: ‘Era meglio al tempo dei colonialisti!’. Oggi la nazione conta gruppi di traditori, egoisti, vanagloriosi, pronti anche ad uccidere chi si oppone al loro progetto” (cfr. il quotidiano Mwananchi 14 agosto, 2011).
A proposito del cinquantenario, non meno forte è padre Lello Massawe, superiore dei missionari della Consolata in Tanzania, che dichiara: “In questi giorni, prima della festa dei 50 anni, sentiamo ripetere dalla radio e dalla televisione: ‘Abbiamo avuto coraggio, siamo capaci, andiamo avanti’. Sono parole frutto di una politica sporca. Io non vedo alcuna verità in esse. Abbiamo avuto il coraggio di far che cosa? Abbiamo avuto il coraggio di mungere la gente, abbiamo avuto il coraggio di rubare ai poveri più di quanto abbiamo loro dato per aiutarli ad uscire dalla povertà” (cfr. la rivista Enendeni, dicembre 2011).

6 - Il rapporto con gli altri cristiani: luterani, anglicani, “salvati” (walokole)…

È un tema molto significativo per noi missionari. Cito ancora il cardinale Pengo, da me intervistato. Il presule ritiene che il rapporto fra cattolici, luterani e anglicani sia buono. Ad esempio, le “tre Chiese”, nell’università di Dar Es Salaam, pregano nella stessa chiesa, come pure condividono la cappella dell’ospedale Muhimbili, sempre a Dar. Ma con il gruppo dei “salvati” (walokole) il discorso cambia: costoro vanno a caccia dei loro fedeli ovunque, attingendo da una chiesa all’altra e ingannando le persone. “Meglio il rapporto con i musulmani, perché sappiamo come sono”.

7 - Parliamo, allora, dei musulmani…

Molti musulmani rivendicano dallo stato la costituzione del “tribunale islamico” secondo la legge coranica. Però il presidente Jakaya Kikwete, musulmano, ha risposto: “Se volete questo tribunale, costituitevelo voi stessi. Lo stato non può intervenire nei problemi religiosi delle varie religioni”. Però tanti musulmani non accettano questa posizione e ritornano alla carica nello stesso parlamento.
Ciò che maggiormente preoccupa, secondo il cardinale Pengo, è il disprezzo verso i cristiani. Alcuni musulmani insultano i cattolici apertamente, anche di fronte alle forze dell’ordine, che fingono di non sentire. I cattolici, pro bono pacis, sopportano tutto in silenzio senza reagire. Fino a quando?

8 - Che cosa fai a Bunju?

A Bunju opero nel Consolata Mission Centre, a metà strada tra Dar Es Salaam e Bagamoyo, con altri 3 confratelli.
Il Centro viene additato come un faro che illumina presente e futuro, tutto e tutti. E veramente tutti ne usufruiscono: uomini e donne a livello personale o in movimenti, professori e studenti, catechisti e seminaristi, vescovi e preti. Tante le suore. Tantissimi i giovani, con prezzi scontati. La luce che il faro sprigiona è pure ecumenica, giacché il Centro ha aperto i cancelli anche a non cattolici: ai luterani, per esempio. Non mancano ambientalisti né leaders politici, tra cui musulmani.
Dopo una complessa gestazione, nel 2008 i missionari della Consolata diedero alla luce il Consolata Mission Centre: per pregare, pensare e cambiare. È un Centro che parla all’intero Tanzania, con la “missione ” sempre protagonista.
Il Centro ospita pure la redazione della rivista Enendeni (Andate), di cui sono direttore. È modesta nella veste tipografica, ma si impegna ad essere propositiva nei contenuti, specialmente in tema di formazione evangelica, giustizia e pace. L’editoriale di marzo scorso recita: “Se manchi di giustizia verso l’altro, le tue preghiere, i tuoi digiuni e le tue offerte della quaresima sono ipocrisia…”.
È, però, paradossale che un mzungu (straniero), dallo swahili quasi indecente, diriga una rivista in tale lingua… Ancora una volta sono di fronte ad un changamoto, una sfida: rinascere in Tanzania a quasi 70 anni, con i capelli bianchi e la schiena già incurvata dalle intemperie della vita.
Tuttavia ringrazio la Madonna Consolata.

p. Francesco Bernardi
Bunju, 10 maggio 2012


Foto:
- Il cardinale Pengo con i padri Makokha e Ishengoma.
- Salone affollato di luterani durante un seminar.
- Sala da pranzo: musulmane e musulmani.
- Una ragazza sfoglia la rivista “Enendeni”

Tutte le foro si riferiscono al “Consolata Mission Centre” di Bunju.


A proposito di stregoneria
LA GRANDE CALAMITà
di Francesco Bernardi

Qual è il flagello dell’Africa bantu?
La povertà generalizzata o la ricorrente siccità?
La corruzione politica o la mancanza di progettazione? Oppure l’aids?
“L’aids” sembrerebbe la risposta più pertinente oggi. Ed invece no.
La grande calamità dell’Africa (e del Tanzania) è la stregoneria. Oggi come ieri.
Lo sostiene Gabriel Ruhumbika, scrittore tanzaniano di 73 anni, nel suo romanzo Janga Sugu la Wazawa (La piaga contagiosa degli indigeni) / (1).
Il romanzo è sociologico e si addentra in uno dei meandri più affascinanti ed inquietanti della cultura bantu: la stregoneria, appunto.
L’intera famiglia dell’anziano Ninalwo viene sterminata (misteriosamente sterminata) da eventi oscuri. A nulla servono i tradizionali riti propiziatori per arrestare un morbo crudele ed endemico come la peste. O le voraci cavallette.
“Stregoneria” è un termine astratto, dietro al quale si muovono, però, losche figure in carne ed ossa, temute da tutti, eppure assai ricercate.
Eccolo “lo stregone” del romanzo di Ruhumbika. Non ha un nome solo, bensì tre: è, nello stesso tempo, padre Joni (sacerdote cattolico), Alhaji Sheikh Isa (musulmano) e Simba Mbiti (presunto professore).
Joni è un giovane prete, troppo… disinvolto verso le donne. Però un giorno incontra una vergine che gli si oppone con veemenza, ferendolo in testa con la pietra con cui sta macinando la farina. Il prete, deriso da tutti, si vendica contro… la religione cattolica del papa di Roma: aderisce all’islam e si trasferisce in Senegal.
Nel nuovo contesto socio-religioso il personaggio non è più soltanto padre Joni, bensì il musulmano Alhaji Sheikh Isa. Gode di quattro mogli. La prima, la più importante, è ricca e bellissima. Però, con la menopausa, diventa brutta, cicciona e le spunta persino la barba. Il consorte si consola “passeggiando” con altre donne. Ma l’ex bella non accetta l’affronto: con l’ausilio di alcune esperte comari immobilizza il marito infedele, lo denuda e minaccia di castrarlo.
Padre Joni-Alhaji Sheikh, intimorito, abbandona il Senegal e ritorna in Tanzania, dopo aver derubato la facoltosa moglie di tutti i suoi quattrini.
Ora padre Joni-Alhaji Sheikh è pure il professor Simba Mbiti, stregone potente, famoso e temuto, con un codazzo di manutengoli, assassini, che eseguono i suoi ordini malvagi. Ad esempio: attaccano la donna che, anni prima, ha svergognato il loro padrone; la uccidono e recano allo stregone, come trofeo, l’intero basso ventre della vittima. Misfatti del genere si susseguono a catena. Organi sessuali, cuori, nasi, orecchi e altre parti del corpo umano vengono venduti, a caro prezzo, dal losco stregone. Sono i suoi farmaci miracolosi, i suoi portafortuna infallibili, i suoi amuleti onnipotenti.
I clienti chi sono? Sono i pezzi da novanta del governo, della finanza, del commercio, delle miniere d’oro e diamanti, della polizia. Frequentano padre Joni-Alhaji Sheikh-Simba Mbiti per aumentare il loro prestigio: la loro ricchezza, soprattutto.

Il romanzo di Ruhumbika è anche uno specchio della società politica del Tanzania.
Nel 1985 l’onesto Julius Nyerere lascia di sua volontà la presidenza della repubblica. Gli succede Hassan Mwinyi, proveniente dall’isola di Zanzibar. I tanzaniani del continente gli appioppano il termine ruksa (o rushwa): ossia “bustarelle”, corruzione, denaro facile a palate. Chi è corruttore-corrotto affonda le mani nelle casse dello stato e le ritrae piene di bigliettoni. È anche così che sperpera il denaro pubblico. Al governo non restano che debiti.
Tra gli arricchiti spicca Joni-Alhaji Sheikh-Simba Mbiti, prete-musulmano-professore, che esercita “il commercio della stregoneria”.
Questo traffico - scrive Ruhumbika - cresce nell’arricchire i personaggi del potere. Non sono molti, tuttavia determinano le sorti dell’intera comunità. Però è un traffico molto rischioso. Tutto può repentinamente mutare: e si piomba nella povertà o si affoga in un mare di guai. A prescindere dal fatto che la stregoneria rappresenta una grave minaccia per la vita e la sicurezza della famiglia (2). Figli e figlie, mariti e mogli scompaiono “misteriosamente”.
A lungo andare e dopo cocenti delusioni da parte dei clienti dello stregone, può scattare la caccia allo stesso stregone e la feroce vendetta.
Tale sorte non risparmia neppure padre Joni-Alhaji Sheikh-Mbiti Simba: stanato dal suo ufficio criminoso, viene linciato in pubblica piazza da alcuni suoi ex clienti, tragicamente delusi dal professor Mbiti Simba. Naturalmente gli astanti non vedono, non sentono, né sanno nulla (3).
Contro il fenomeno della stregoneria - termina il romanzo di Ruhumbika - è in corso una lunga e complessa guerra psicosociale. Però la vittoria arriverà, perché il proverbio recita: penye nia pana njia (se c’è la volontà, c’è la strada).
Così in Africa nascerà la famiglia della speranza. Ognuno potrà coricarsi alla sera e alzarsi al mattino senza il terrore dello stregone.
Tutti potranno soddisfare il loro ideale di progresso: in pace, serenità e sicurezza.

1) Cfr. Gabriel Ruhumbika, Janga Sugu la Wazawa, E&D Limited, Dar es Salaam 2001.
Del romanzo non esistono traduzioni in italiano, né in altre lingue.
2) Cfr. Gabriel Ruhumbika, op. cit., p. 187
3) Cfr. Ibid, pp.173-175

UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI TORINO /RICORDO DI ENRICO LUZZATI





Mentre scriviamo è in corso a Torino, presso l’aula Principi di Acaja dell’Università degli Studi di Torino , Facoltà di Scienze Politiche, il seminario in ricordo del prof. Enrico Luzzati, attraverso l’analisi del libro “Con i piedi per terra”- Movimenti contadini- Ricerca-Azione –Cooperazione allo sviluppo- di Riccardo Capocchini e Federico Perotti (responsabile quest’ultimo dei progetti CISV), pubblicato da Franco Angeli- editore in Milano.
Intento del seminario è quello di raccontare l’impegno e la resistenza di molti piccoli contadini, tanto in Africa quanto in America Latina , allo sfruttamento delle multinazionali dell’agro-alimentare.
E il rifiuto inoltre ad accettare forme di urbanizzazione coatta nonché di omologazione culturale.
La risposta è quella che si estrinseca caparbiamente con la nascita di organizzazioni contadine, in rete e a livello mondiale, i cui scambi e le cui proposte finiscono con il dare vita, successivamente, a progetti condivisi di cooperazione agraria nei quali unici e veri protagonisti, appunto, sono i piccoli contadini.
Il dibattito,a seguito della presentazione del libro, verterà principalmente su agricoltura a conduzione familiare, corporativismo, ruolo dei progetti e, naturalmente, delle Ong (Organizzazioni non governative).
Sono presenti in aula alcuni docenti dell’Università di Torino,diversi esperti e personalità del mondo degli enti e delle istituzioni, e non della sola Regione Piemonte.
Per l’LVIA (Ong di volontariato e cooperazione internazionale con sede a Torino e a Cuneo) relazionerà Massimo Pallottino sul tema “Lavorare con le organizzazioni e i movimenti contadini nel Sud del mondo tra ricerca e azione”.
Il seminario avrà termine alle ore 19,00.
Per chi non avesse avuto la possibilità d’essere presente e quindi di partecipare al seminario, se interessato a questo genere di tematiche ,si consiglia, per la comprensione e l’approfondimento del fenomeno, almeno la lettura del libro di Capocchini e Perotti, reperibile nelle librerie delle nostre maggiori città.


a cura di Marianna Micheluzzi (Ukundimana)

martedì 8 maggio 2012

"ROSE IN PERIFERIA" / LEGGERE POESIA





Periferie del mondo tutte uguali.
Uguali nella gioia del poco e nel dolore immenso.
Ne ho attraversate alcune quasi per sfida.
Una sfida con me stesso per riuscire a donare
speranza di futuro a chi non ce l’ha
e mai l’ha avuta.
Giovani e vecchi ,mezzi uomini e ladri di polli.
Donne sfigurate dalla fatica e bambini urlanti.
Poi un giorno ho incontrato per caso
la “signora” che recide il filo del nostro cammino
e ogni cosa inesorabilmente in un attimo solo
ha perso contorni e colori.
Ora a te, Manuel, giovane amico, il testimone della gara.
Una gara antica come il mondo ,che non ha mai termine.
Dove è bello potersi avvicendare anche se non c’è premio alcuno.
Perché già premio, supplemento di umanità, è andare ed esserci.

di Marianna Micheluzzi

domenica 6 maggio 2012

Il RICCO IL POVERO LA CAPRA E IL SAGGIO /ANGOLO DEL GRIOT




IL RICCO IL POVERO LA CAPRA E IL SAGGIO / ANGOLO DEL GRIOT

Nel villaggio degli Akamba, nel nord del Kenya, c’erano un tempo due uomini,uno ricco e uno povero, che tuttavia erano fin da bambini amici per la pelle.
Questo voleva dire che lavoravano insieme, trascorrevano insieme il loro tempo libero e si confidavano ogni cosa.
E il povero si fidava ciecamente del ricco, perché questi si era sempre dimostrato generoso e disponibile i diverse occasioni senza mai fare pesare la differenza di ceto esistente tra loro due
Un brutto giorno però nella regione, e quindi anche nel villaggio, sopraggiunse inaspettata prima una terribile siccità e poi la carestia.
Nei campi e al mercato non c’era più niente da mangiare. E ognuno si arrangiava come poteva.
E fu allora che il ricco sparì e non si fece più trovare dall’amico povero.
Il povero disperato vagava ,ogni giorno, qua e là tra i rifiuti, semmai ce ne fossero stati, alla ricerca di qualcosa da mettere in pancia.
E, gira che ti rigira, in un giorno fortunato incontrò proprio per caso un vecchio anziano del villaggio,giudicato saggio, che, mosso a pietà dall’aspetto macilento dell’uomo, gli diede un po’ di granoturco del suo, affinché potesse sfamarsi lui e la sua famiglia.
Il povero allora corse subito dalla moglie e si fece cucinare una zuppa, nella quale però non aveva né carne, né sale da mettere e con cui poterla rendere saporita e condire adeguatamente.
E allora pensò bene di andarsi a mettere con la ciotola della sua zuppa fuori dalla casa del suo amico ricco, nella quale aveva sentito dire in giro si banchettava lautamente.
E così fece. E questo per poter usufruire degli aromi che invadevano tutta l’aria circostante tanto erano forti e densi.
Quando l’indomani il ricco venne a sapere della cosa, andò però su tutte le furie e pretese da un giudice del villaggio un processo e il risarcimento per il maltolto.
E il giudice, che stava dalla parte dei ricchi e dei potenti, ordinò al povero di restituire al ricco, per compensarlo, una capra. E di farlo presto, entro pochi giorni.
Il povero piangeva e si disperava perché proprio non sapeva come avrebbe potuto fare, visto che si può dire non aveva quasi più neanche gli occhi per piangere.
Mentre se ne stava tutto triste fuori casa ecco che gli ricomparve di nuovo il vecchio anziano del villaggio .Il saggio. Quello che, giorni prima, gli aveva offerto il granoturco.
Quando seppe del’ingiusta condanna dell’ uomo, immediatamente si recò tanto dal ricco che dal giudice ed espose, senza peli sulla lingua, il suo punto di vista.
Anzi, per rendere il tutto più efficace e convincente, si fece portare nel posto una capra.
E disse chiaramente che, come il povero aveva solo inalato gli odori della cucina del ricco,l’unica cosa corretta per il ricco non era quella di impossessarsi di una capra, che il povero inoltre non possedeva, ma soltanto di appropriarsi del belato della bestia.
E cominciò a percuotere la capra e quest’ultima, senza farsi pregare, prese, com’era naturale che fosse, ad emettere i suoi versi.
A quel punto il giudice si convinse da solo e disse che quella era la sentenza giusta. E che non ce n’era un’altra.
Il ricco andò via stizzito, il giudice si accomiatò sereno,il saggio fu felice di avere fatto trionfare un po’ di giustizia e il povero fu non solo felice ma eternamente grato al suo “salvatore”.
E imparò inoltre a non fidarsi troppo di coloro che si propongono come amici e condiscono la “cosa” con molte chiacchiere e troppe smancerie ma al momento opportuno sono solo dei veri propri campioni di egoismo.
E magari anche supponenti.
Africa insegna.








a cura di Marianna Micheluzzi (Ukundimana)

sabato 5 maggio 2012

PER P. VALENTIM EDOARDO CAMALE / MISSIONARIO E FIGLIO D'AFRICA





Non ti conoscevo p. Valentim ma eri compagno di lavoro ed amico di p. Fabio e, soprattutto, eri un “figlio” dell’Allamano in terra d’Africa, quel testardo di un prete piemontese, che ha voluto, in una Torino dei tempi di “vacche magre” quanto a vocazioni, dare vita agli inizi del ‘900, nonostante mille ostacoli, ad un Istituto missionario .
Questo mi basta per amarti.
E so quel che dico.
Per te, messo tra parentesi momentaneamente il dolore, perché noi credenti sappiamo che il martirio è parte integrante della scelta di vita missionaria, io cercherò con queste poche parole di spiegare, a chi tra noi ha perso di vista la fede o non l’hai mai avuta, chi è il ”missionario”.E la pienezza gioiosa d’esserlo.
Nella speranza fondata che il tuo sacrificio della vita, perpetrato assurdamente per mano dei tuoi stessi fratelli mozambicani, non sia stato e non sia mai del tutto inutile.
Che il seme caduto insomma dia nuovi germogli e la pianta frutti.
“Bisogna che io diminuisca e che lui cresca” (Gv.3,30) è scritto nel Vangelo di Giovanni, l’apostolo prediletto di Gesù, che fu con Lui e con Maria sotto la croce.
Chissà quante volte l’avrai letto e riletto.
Ebbene il missionario vive questa dimensione ogni giorno.
Diminuisce volontariamente nel dono di sé nei confronti di chi ha più bisogno di lui della “parola” e del”gesto”.
E’ colui che non va mai alla ricerca della propria affermazione ma, in questo cammino , si spoglia di sé e di quelli che potrebbero essere i suoi progetti personali.
Ha come solo e unico riferimento Cristo Gesù.
E’ Lui per il missionario il Signore della vita, l’incontro autentico, la vera “libertà”.
So che non è un concetto facile né da comunicare, né da percepire in chi ascolta, perché appunto non si tratta di concetto ma di una “scelta”, che poi quella che si definisce la classica chiamata.
Allora mi fermo giustamente qui.
Anche perché non voglio fare violenza a chi fosse di altro parere.
Aggiungo solo che tu, Valentim, avevi scelto, anni addietro e con le idee ben chiare, lasciando definitivamente la tua famiglia, che in Africa è importante per ogni uomo a livello identitario, e ti eri fatto consapevolmente “faro”.
Un faro che doveva spargere e ha sparso luce, perché tutti venissero a conoscenza, in ogni luogo, di un annuncio intramandabile.
Grazie. Ti sia lieve la terra.
Il tuo essere stato prete e missionario con fede sincera (questo soltanto io voglio pensare in questo momento) e il tuo ritorno alla casa del Padre, che accoglie e mai respinge alcuno ,perché Lui è Amore vero, sia preghiera di fratellanza autentica, perdono alla mano assassina e occasione di nuove “chiamate” nella giovane Africa alla sequela di Cristo.



A cura di Marianna Micheluzzi (Ukundimana)

PAROLE DISEGNATE / ANGOLO DELLA POESIA




Il tuo cielo è vuoto, novella“cantatrice calva”,
anche nelle notti di approssimativa passione.
Il tuo provinciale immaginario ora è
muto e ti arreca solo turbamento
che stenta a svanire mentre insonne
ti rigiri sudaticcia tra le coltri stropicciate .
Perché le dinamiche sagome di El Greco, che tu
un tempo amavi tanto, non svettano più verso l’alto
ma s’incurvano a cercare il “basso”.
Irrequietezza ed echi d’armonica lontana
giungono nel mentre inattesi
a disegnare scenari novelli di vita
che squarciano la tela.
E l’alba grigia s’approssima routinaria.



di Marianna Micheluzzi

venerdì 4 maggio 2012

DONNA AFRICANA LOTTA...E NON ARRENDERTI MAI







L’editore Rizzoli, lo scorso gennaio, ha mandato in libreria il libro - testimonianza “Spezzare le catene” di suor Eugenia Bonetti, missionaria della Consolata, e notissima anche fuori dagli ambienti strettamente cattolici per il suo impegno civile, in Italia, a Torino soprattutto, a favore delle donne vittime della tratta delle schiave.
E’un libro che suor Eugenia ha scritto in collaborazione con la giornalista Anna Pozzi, redattrice nei periodici “Jesus” e “Famiglia cristiana” della San Paolo -editrice di Alba(CN).
Un libro, che per noi è proprio il classico pugno nello stomaco e che non poteva più, secondo la religiosa, essere ulteriormente tramandato.
Il testo, frutto di molti anni di esperienza a contatto diretto con il mondo giovanile in Africa (24 anni) e in patria, scaturisce dall’esigenza di dover necessariamente affrontare, dato il moltiplicarsi esponenziale del fenomeno con le sue inevitabili e dannose conseguenze negative sulle vittime prima e poi e sulla società stessa, un tema , quello della “schiavitù” delle donne africane, che arrivano in Europa con l’allettante promessa di un lavoro certo e finiscono, sotto costanti minacce e ricatti (quando non perdono addirittura la vita), quali prostitute sui marciapiedi delle nostre città.
Ma tutto questo lo si trova ampiamente argomentato nel libro, che, senza taccia di bacchettoneria, merita lettura e riflessione attente.
E consente anche a noi,che ne siamo in un certo senso fuori, di valutare fino a che punto possiamo davvero ritenerci estranei del tutto a questo genere di fatti.
Vi propongo, hic et nunc, invece il ritratto della donna africana, quello che suor Eugenia Bonetti con grande simpatia e obiettività disegna nel corso di un’intervista, proprio lei che ha avuto anni ed anni di familiarità e feconda convivenza in Italia, e in missione in Africa, con queste donne, giovani e meno giovani, sane o ammalate(aids?), istruite e no.
Fortunate o meno fortunate insomma, che esse fossero. E sotto qualunque cielo esse si trovassero.
Le donne africane- racconta con amore suor Eugenia – sono ricche di valori umani ma sovente instabili e vulnerabili più di altre. E in questo vanno capite e affiancate. Mai lasciate sole.
Cercano certamente l’emancipazione ma nel percorso sono sempre piuttosto bisognose d’aiuto.
Sono aperte, socievoli, serene e gioiose.
Sono- diciamo (è sempre suor Eugenia che parla) - l’ottimismo in persona anche nei momenti di grosse difficoltà.
Hanno poi forte il senso dell’accoglienza, e sono disponibili all’ascolto e alla condivisione.
Esse insieme alla popolazione giovanile – precisa la religiosa - costituiscono in effetti un grosso potenziale per tutto il continente africano sempre se riusciranno a svincolarsi appunto dai condizionamenti economici, politici e tribali dei loro contesti di riferimento.
E questo- aggiunge - sarà possibile solo con l’istruzione , che significa poi , e non va dimenticato mai, anche formazione della persona e quindi ricchezza spirituale.
Le donne africane potrebbero essere proprio loro la forza trainante di quel mondo più umano e solidale, che vorremmo vedere costruito e nel quale ci piacerebbe vivere.
E, concludendo, il monito di suor Eugenia è che il nostro mondo occidentale, affetto in prevalenza da consumismo esasperato ma soprattutto dall’assunto metabolizzato ormai dell’ “usa e getta”, non deve più permettersi di distruggere, e farlo impunemente, ciò che non è affatto solo un corpo da vendere e da comperare.
Quelle sono ferite, che si rimarginano con grosse difficoltà, le peggiori in assoluto, per la donna africana e no, e lei, suor Eugenia, nei centri che ha costituito in città per guarirle, lo sa molto bene.


A cura di Marianna Micheluzzi (Ukundimana)

SUDAN /ALLARME EMERGENZA UMANITARIA






L’Ong torinese Ccm (Comitato di collaborazione medica), di cui abbiamo già avuto modo di parlare in altre occasioni, unitamente ad altre organizzazioni sanitarie anch’esse attive in Sudan, lancia l’allarme emergenza sanitaria in seguito alla conflittualità permanente tra Sudan del nord e Sud-Sudan, il nuovo stato africano, nato lo scorso luglio.
Dopo le dichiarazioni di Omar- el- Bashir, il presidente sudanese, che fanno chiaramente intendere che non ci sarà a breve tregua alcuna,perché occorre dare una “lezione” al Sud-Sudan, nell’ospedale rurale di Turalei, nella contea di Twic, dove opera appunto il Ccm, sono confluiti moltissimi sfollati dai territori circostanti ed è molto difficile, giorno dopo giorno, prestare assistenza ai feriti e curare gli ammalati.
Alcuni dati, gli ultimi, sono emblematici della complessità dello stato di cose odierno .
Si sono registrati infatti, solo nello scorso mese ,11 decessi e sono stati medicati 312 feriti. Di questi 35 sono civili e non militari.
Le località prese di mira dagli attacchi del Sudan settentrionale sono state Bentiu ( solo qui si contano 283 persone ferite anche gravemente,tra cui alcune donne e bambini) , Mayom (15), Agok (4) ,Aweil (10).
Prestate le prime cure immediate, come è possibile in emergenza, i rischi maggiori, tuttavia, restano nei giorni a venire, secondo i sanitari sul campo, la diffusione di epidemie, legate alla mancanza d’acqua, le indispensabili vaccinazioni ai bambini, che non sono state fatte perché i vaccini non ci sono e l’aumento progressivo dei casi di malnutrizione come ,per altro, era quasi prevedibile.
Quanto agli sfollati,che vivono accampati alla meno peggio lì dove riescono a trovare un riparo e mancano di tutto, le cifre parlano già di 1800 a Bentiu e dintorni nella contea di Rubkona, di circa 2000 nella contea di Pariang e di 1500 in quella di Guit.
Essere informati è importante, anche perché i nostri media, dopo un rapsodico allarme iniziale, tacciono.
Mobilitarsi per impedire il peggioramento della situazione, dovrebbe essere più che una questione di “pappa di cuore”, l’atto conseguente. Quasi dovuto.
“Toujours les petites choses” – diceva il grande Balzac.
E la “nostra” crisi non sia alibi.




A cura di Marianna Micheluzzi (Ukundimana)