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domenica 20 aprile 2014

Oasi di utopie /Spazio Poesia

Incontri la “parola” ami la “parola” plasmi la “parola” e nello spazio e nel tempo resetti olezzi e magagne umane che rimpiazzi con assi di cuore nel gioco dell’esserci. E così un soffio apre brecce nelle anguste pareti della prigione. Sei tu il poeta. (Marianna Micheluzzi)

mercoledì 12 marzo 2014

Tanzania / Stregoneria è mala pianta /I missionari provano ad estirparla con la formazione e l'istruzione

NON ADORARE DUE DIVINITA' Ossia “il Dio di Gesù Cristo” e “lo stregone”. di Francesco Bernardi, missionario in Tanzania Che fare con lo stregone? Le morti si susseguirono una dopo l’altra, con ritmo impressionante, nella casa di Makene, un facoltoso anziano della tribù dei Wasukuma inTanzania. Dopo la celebrazione dell’ultimo lutto rituale, il figlio maggiore di Makene interrogò il genitore: “Padre, un tempo i nostri capi come punivano gli stregoni?”. Seguì un lungo e inquietante silenzio. Poi l’anziano Makene indugiò su alcune considerazioni. Infine il figlio maggiore e i suoi fratelli se ne andarono senza proferire parola. Ma in cuor loro avevano deciso: bisognava sopprimere subito quel losco stregone, responsabile di tutti gli oscuri mali che avevano funestato la loro casa. Il giorno successivo i figli di Makene fecero irruzione nello “studio dello stregone” proprio mentre stava trattando una paziente. Era un’avvenente signora: giaceva nuda sul letto, e le mani vogliose dello stregone le massaggiavano le cosce. Lo stregone venne immobilizzato in un lampo, portato fuori e impiccato ad un albero sotto lo sguardo compiaciuto di tutti. Quello era uno stregone davvero singolare. Anni prima era un sacerdote cattolico: padre Joni. Invaghitosi di una giovane donna, stava per abusarne. Ma lei resistette; non solo, bensì con un sasso colpì sul volto l’aggressore. La notizia fece il giro del villaggio, e il prete divenne il bersaglio di una generale derisione. Padre Joni, ebbro di rabbia e vergogna, si disse: “Io sono figlio di uno stregone pagano. Perché dovrei seguire la religione straniera dei bianchi? Ne abbraccerò un’altra: l’islam, ad esempio”. Detto, fatto. Il prete gettò la tonaca alle ortiche e divenne un seguace di Muhammad. Partì per il Senegal, dove sposò una ricca musulmana, dalla quale ebbe cinque figli. Però non si accontentava solo della propria moglie. “Passeggiava” pure con altre donne. Troppo. Un pomeriggio la consorte, con l’aiuto di alcune amiche, aggredì il marito, lo denudò da capo a piedi e lo minacciò: “Amore mio, sta’ bene attento! Se continui a disonorarmi, ti sgozzo come un maiale”. E gli puntò al collo un coltello affilato. Il libertino ebbe paura e fuggì ritornando in Tanzania, non prima però di aver sottratto alla famiglia un’ingente somma di denaro. In Tanzania l’ex padre Joni si dedicò alla stregoneria, facendo soldi a palate. La sua prima impresa fu l’assassinio di quella donna che, un tempo, non resistette alle sue voglie, anzi lo svergognò come nessun altro. “Scovate quella strega - ordinò ai suoi manutengoli - e portatemi qui su un piatto il suo basso ventre”. Così fu. È peggiore dell’aids Questa vicenda è narrata dallo scrittore tanzaniano, Gabriel Ruhumbika, nel libro “La piaga endemica degli indigeni” del 2001 (1). Nel 2001 qual era la “piaga endemica” del Tanzania? La stregoneria, piaga diffusa ovunque. La popolazione la temeva più degli artigli delle bestie feroci, più della lebbra, più dello stesso aids. Pertanto gli stregoni, se individuati, potevano anche essere linciati coram populo, come toccò allo spregiudicato ex padre Joni. Tali esecuzioni erano pure un sacrificio espiatorio e propiziatorio per i benestanti che continuavano a frequentare gli stregoni, ripromettevano di accrescere la loro fortuna. D’altro canto, i ricchi (uomini di affari, generali dell’esercito e della polizia, papaveri del governo ecc.) erano i primi a bussare dallo stregone per ottenere, a pagamento, “la medicina” che avrebbe garantito loro potere e prestigio. Talora la medicina consisteva in “arti umani”, tra cui dita di albini e organi sessuali. Il traffico della stregoneria prosperava clandestino, indisturbato e criminale. A volte i clienti dello stregone dovevano pagare le sue prestazioni persino con il “sacrificio cruento” di un loro figlio. Oggi peggio di ieri? Questo ed altro viene illustrato dal libro di G. Ruhumbika, che risale al 2001. Oggi, 2014, qual è il panorama della stregoneria in Tanzania? Il governo si è impegnato a sanare questo morbo contagioso, con l’intento soprattutto di fermare gli omicidi, perché a farne le spese sono spesso persone innocenti ed innocue, vittime di pregiudizi: donne con gli occhi rossi, portatori di handicap ecc. La legge sanziona con pene la pratica della stregoneria. Tuttavia il fenomeno, invece di diminuire, cresce. È sintomatico che nel 2010 le uccisioni legate alla stregoneria fossero 579, mentre nel 2012 salirono a 630. Ecco i nomi di alcune persone giustiziate, perché ritenute stregoni: - Lorenza, anni 70, di Geita: uccisa e bruciata dagli abitanti del suo villaggio; - William, 68 anni, di Mbeya: soppresso dai suoi stessi figli; - Gaetano, 60 anni, di Iringa: squartato a pezzi da ignoti (2). Sovente è lo stesso stregone ad accusare altri di stregoneria, decretandone la fine. La vicenda segue questa trafila: - un individuo, afflitto da malore, ricorre allo stregone per trovarvi rimedio; - se l’interessato peggiora e addirittura muore, lo stregone può ravvisare in un “nemico” la causa del male; - allora il “nemico” può essere eliminato con qualsiasi mezzo. Oggigiorno la stampa del Tanzania si sofferma su diversi casi di stregoneria. Ad esempio: il quotidiano Mwananchi ha scritto che il mercato all’aperto di Mbeya è stato più volte bruciato per ragioni di stregoneria. Ma c’è di più nella regione di Mbeya: il sospetto di stregoneria fa sì che si seppelliscano persino persone ancora sane e vegete (3). La posizione della Chiesa Circa la stregoneria, la Chiesa Cattolica si appella alla Bibbia. Plagiare persone, evocare spiriti o “battere assicelle” (kupiga bao) si compivano pure nella terra di Israele, “nazione eletta” di Dio. Ma erano atti severamente proibiti dall’Onnipotente. Il libro dell’Esodo 22, 18 recita: “Non lascerai vivere colei che pratica la stregoneria”. Il Deuteronomio 18, 10-12 precisa: “Non si trovi in mezzo a te chi immola, facendoli passare per il fuoco, il figlio o la figlia, né chi esercita la divinazione o il sortilegio o la magia; né chi faccia incantesimi, né chi consulti gli spiriti o gli indovini, né chi interroghi i morti, perché chiunque fa queste cose è in abominio al Signore”. Nel Catechismo della Chiesa Cattolica, 2117 si legge: “Tutte le pratiche di magia e stregoneria... sono gravemente contrarie alla virtù della religione. Tali pratiche sono ancor più da condannare quando si accompagnano all’intenzione di nuocere agli altri o quando si ricorre all’intervento di demoni. Anche portare amuleti è biasimevole...”. Né si scordi il Secondo Sinodo dei Vescovi dell’Africa, svoltosi a Roma nel 2009, secondo il quale la stregoneria esercita una forte attrazione... L’incertezza di fronte all’ambiente, alla salute, al futuro dei figli, nonché il timore di spiriti malvagi inducono la gente a ricorrere a pratiche contrarie all’insegnamento di Cristo. L’aderire, nello stesso tempo, a due fedi diverse ed opposte (paganesimo e cristianesimo) è una grossa sfida (cfr. Africae Munus, 93). Più esplicitamente, la sfida investe il cristiano tanzaniano che, alla domenica mattina, va a Messa in chiesa, e nel pomeriggio bussa alla porta dello stregone. Ecco “l’aderire, nello stesso tempo, a due fedi diverse ed opposte”. I missionari che dicono? Da sempre i missionari hanno combattuto la stregoneria (scontrandosi con gli antropologi), perché hanno ritenuto e ritengono che il fenomeno sia causa di divisione all’interno della comunità, fomenti odi e vendette a non finire (4). I missionari della Consolata non fanno eccezione. Però recentemente si sono sentiti gratificati da Tarcisio Ngalalekumtwa, vescovo di Iringa e presidente della Conferenza episcopale del Tanzania. Ai cristiani della parrocchia di Sadani il vescovo raccomandò: “Fratelli, rifuggite con coraggio dalla vendetta e dalla stregoneria. Queste sono piaghe che incretiniscono, impoveriscono e trasformano in figli delle tenebre” (5). Anche il citato G. Ruhumbika sostiene che la stregoneria sia “il grande inizio della povertà”. A parare dello scrittore, in Tanzania è in atto una guerra contro la stregoneria e “alla fine si conseguirà la vittoria” (6). Tuttavia non basta reprimere. Bisogna proporre un’alternativa alla stregoneria. Per i missionari l’alternativa è l’istruzione e la formazione. Senza scordare che un certo Gesù ha sconfitto il mondo, compresa la sua stregoneria. Egli sarà con i suoi fratelli tutti i giorni sino alla fine della storia (cfr. Giovanni 16, 33 e Matteo 28, 20). _____________________________________ 1) Autore e titolo originale del libro-romamzo in swahili: Gabriel Ruhumbika Janga sugu la wazawa, Dar Es Salaam 2001 2) Cfr. Taarifa ya haki za binadamu, 2012, LHRC & ZLSC 2013, pp. 34, 192 3) Cfr. Mwananchi, 13 novembre 2013 4) Il missionario, specie nel passato, di fronte alla stregoneria ha fatto spesso di ogni erba un fascio. Non sempre ha saputo distinguere tra “stregone” (sorcerer in inglese e mchawi in swahili) e “medico tradizionale” (medicine-man e mganga wa kienyeji). Il primo era ed è una figura essenzialmente negativa, mentre il secondo può guarire da varie malattie. 5) Cfr. la rivista Enendeni, machi-aprili 2014 6) G. Ruhumbika, op. cit., pp. 187, 193

venerdì 7 marzo 2014

AFRICA OGGI / LONTANA DAI NOSTRI STEREOTIPI

Il problema del suicidio in Africa NON SEI UNA TESTA VUOTA Ogni anno, nel mondo, oltre un milione di persone si tolgono la vita. E circa 700 in Tanzania. In Africa perché si suicidano? Perché ritengono di essere “teste vuote”. Ma per il Buon Dio nessuno è “una testa vuota”. di FRANCESCO BERNARDI, missionario in Tanzania Kazimoto e Sabina Kazimoto è un giovane di 30 anni, insegnante in un liceo. È cattolico, però il cristianesimo non è penetrato nel suo cuore e non ha cambiato il suo carattere frivolo, specialmente a livello morale: infatti spesso e volentieri frequenta il pub del villaggio tracannando birra e, se trova una ragazza, se la porta a letto senza alcuno scrupolo. Anche la tradizione non incide più di tanto nel comportamento di Kazimoto. Ieri ha incontrato un gruppo di anziani del villaggio, che hanno rammentato la vita del passato: hanno ricordato le storie dei capitribù, di personaggi fantastici che si arrampicavano sugli alberi con una sola mano e di una femmina con la coda, piovuta dal cielo, che generò diversi figli e poi scomparve. Kazimoto ha interrotto il racconto dei vecchi esclamando: “Io sono lontano mille miglia dalle vostre storie”. Gli astanti l’hanno squadrano da capo a piedi stupefatti, e sono rimasti ancora più sbalorditi allorché il giovane ha dichiarato: “Dio? Dio forse non esiste affatto”. Un anziano, dai capelli bianchi come le nevi del Kilimanjaro, lo ha bollato furioso con occhi di fuoco: “Dio non esiste! Ma tu chi sei? Di chi sei figlio? Cretino, cretino!”. Inoltre Kazimoto non conosce perdono. Un suo eventuale nemico lo ammazzerebbe quasi senza pensarci. Una sera Kazimoto incontra Sabina, una ragazza protestante e praticante. I due si innamorano e si sposano in chiesa secondo la fede cattolica. Però il cuore di Kazimoto è zeppo di paure. Sabina resta incinta, ma il bambino nasce morto. - Moglie mia - la chiama Kazimoto. - Eccomi, marito mio - risponde Sabina. - Sabina, io non so perché vivo. - Kazimoto, mi stanchi con le tue stupide considerazioni. Non puoi vivere come tutti? Tu chi sei? - Non lo so - risponde Kazimoto. - Certo non immaginavo che tu fossi “una testa vuota” così. Proprio non lo immaginavo... Trascorrono pochi giorni, e Kazimoto si suicida lasciando il seguente biglietto: “Mi sono impiccato. Non potevo sopportare di generare altri figli. Inoltre non ho trovato alcuna differenza fra me e gli animali. Non ho mai incontrato alcuno che credesse che Dio esistesse...”. L’africano ama la vita? La storia di Kazimoto è tratta dal romanzo Kichwamaji, scritto da E. Kezilahabi. (“Kichwamaji”: termine swahili che significa “testa d’acqua” o “testa vuota”). Il romanzo Kichwamaji venne pubblicato 40 anni fa. Nel 1974 quanti tanzaniani ritenevano che un africano potesse suicidarsi? Pochissimi. Forse nessuno. Negli anni “settanta” (e non solo) i mass media del Tanzania non riportavano casi di suicidio. Al contrario, tutti (intellettuali compresi) sostenevano che l’africano amasse la vita in modo viscerale, a prescindere dall’esistenza grama che conducesse. L’amore e il rispetto per vita sono cardini della cultura africana, e la Chiesa non manca di sottolinearlo. Nel documento relativo al primo Sinodo dei vescovi africani, svoltosi a Roma nel 1994, si legge: “La vita viene rispettata sempre dalla nascita alla morte” (cfr. “Karibu nyumbani Sinodi ya Afrika”, V/3). Il secondo Sinodo per Africa (Roma 2009) ribadisce l’amore e il rispetto per la vita. Tuttavia i vescovi africani riconoscono pure i fardelli che gravano sull’esistenza degli uomini e delle donne del nostro tempo. Il ricorso a droghe ed alcoolici minano alle radici la vita dell’africano, per non parlare delle piaghe endemiche della malaria, tubercolosi e aids che “ingoiano le persone e scardinano a livello elevato la vita sociale ed economica” (cfr. “Africae munus”, 72). Perché proprio io? Oggigiorno in Tanzania il problema “suicidio” balza pure sui giornali. Così non era 30-40 anni orsono. Il quotidiano “Mwananchi” dell’11 settembre 2013 scrive e si domamda: “Perché la gente si suicida?”. Secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità, ogni anno si contano in media nel mondo un milione di suicidi: 3 mila al giorno. In Tanzania (con 45 milioni di abitanti) si registrano 700 suicidi all’anno: riguardano soprattutto i giovani di 15-25 anni. Il suicidio è da ascriversi a delusioni amorose, a tensioni familiari e sociali. Un’altra ragione che scatena il suicidio è l’aids ed altre patologie incurabili. I segni che annunciano “la morte procurata” sono lo scoraggiamento personale, i frequenti mutamenti di umore, il distacco dalla propria famiglia, la mancata risposta a vari “perché”. Parecchie persone si tolgono la vita non perché amano la morte, bensì perché non sopportano più eventi che sconvolgono la loro esistenza. Molti prima di suicidarsi lasciano il seguente messaggio: “Meglio morire piuttosto che trovarsi in alcuni frangenti. È troppa la vergogna. Non posso sopportarla. E poi: perché tutto questo capita proprio a me?”. Così la delusione e la tristezza invadono il cuore, e la si fa finita per sempre. Un atteggiamento di misericordia Che cosa afferma la Chiesa cattolica sul suicidio? Ricordando il quinto comandamento “non uccidere”, la Chiesa non può approvare il suicidio. Il suicidio è un peccato contro l’amore di Dio, contro il prossimo e contro se stessi. Tuttavia “gravi disturbi psichici, l’angoscia o il timore grave della prova, della sofferenza o della tortura possono attenuare la responsabilità del suicida” (cfr. “Catechismo della Chiesa Cattolica”, 2280-2282). Il citato catechismo prosegue: “Non si deve disperare della salvezza eterna delle persone che si sono date la morte. Dio, attraverso le vie che egli solo conosce, può preparare loro l’occasione di un salutare pentimento. La Chiesa prega per le persone che hanno attentato alla loro vita” (“Ibid.”, 2283). Parole di misericordia, che è il nocciolo dell’amore. E i missionari, che annunciano la gioia contro ogni tristezza, devono essere in prima linea nell’assumere un atteggiamento di consolazione-comprensione specie di fronte al suicidio. Il beato Giuseppe Allamano, fondatore dei missionari della Consolata, raccomandava: “Non lasciamoci dominare dalla tristezza. Nei giorni tetri e nelle ore buie della vita non lasciamoci sopraffare dalla tristezza. Sforziamoci di vivere sempre nella speranza... Preghiamo lo Spirito Santo che ci aiuti a correggere il nostro carattere”. Ebbene: non essere “una testa vuota” (kichwamaji), come il giovane Kazimoto, perché, quale creatura di Dio, non lo sei affatto. _____________________________________ 1) Cfr. E. Kezilahabi, Kichwamaji, EAPH, Dar Es Salaam 1974 a cura di Marianna Micheluzzi (Ukundimana)