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martedì 6 marzo 2012

Il pozzo di Sichar /L'amica "italiana" risponde a Paul















Carissimo Paul, pur condividendo buona parte dei tuoi interrogativi sulle responsabilità della Chiesa di Roma e dei preti e dei missionari operanti in Rwanda all’epoca di quel inenarrabile tragico evento, che è stato il genocidio(circa un milione di morti), in cui, per altro , tu hai perso addirittura l’amata compagna della tua vita, io ti dico subito che è difficile distinguere tra colpevoli e innocenti quando in un Paese si vive, per motivazioni strettamente politiche e ideologiche, un periodo di grande confusione come in quegli anni.
Direi che è quasi inevitabile che possa accadere il peggio.
La Germania di Hitler, la Russia di Stalin,la Spagna di Franco,il Portogallo di Salazar e tante altre realtà che non si contano, erano Europa e non Africa. Eppure di morti ce ne sono stati. E anche tanti.
E quegli anni non sono poi molto lontani da noi nel tempo.
Allora io, per risponderti, inizio con il proporti l’immagine di Gesù, quel Gesù che a te piace poco o nulla (lo so), al pozzo di Sichar, in terra di Samaria.
Una terra abitata da gente fortemente disprezzata dai giudei.
Lì, in quel punto preciso, Gesù domanda da bere ad una donna (Gv.4,1-26).
La donna è immediatamente stupita di questa confidenza spontanea e risponde prontamente al suo interlocutore :” Come mai tu che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono samaritana?”
Fermiamoci qui, caro Paul.
Perché?
Per dirti che il missionario, prete o religioso che sia, se lo è sul serio, è colui che si siede sempre, sotto qualunque cielo, con l’altro al pozzo della vita.
Perché non è e non deve essere,se è lì per condividere e promuovere la vita, mai l’uccello solitario sul tetto, che se ne sta a guardare e se ne lava le mani di quanto accade intorno a lui.
Allora, come è potuto succedere che, l’ annunciatore di un messaggio d’amore, sia divenuto complice di un efferato delitto?
Solo gli “egoismi” rendono gli uomini portatori di una cultura di morte.
E questi egoismi io li identifico appunto con le ideologie di qualunque colore o appartenenza politica esse siano.
Con la politica e le ideologie bisogna tuttavia convivere .
Noi non siamo puro spirito, finché almeno abbiamo un corpo e dobbiamo attraversare, nel bene e nel male, la quotidianità del vivere.
La missione della Chiesa non può più, dopo quanto è stato scritto, discusso, assimilato, in seguito al Vaticano II, essere concepita come una lodevole e accessoria opera di misericordia in territori lontani, dove ci spinge emotivamente il desiderio tutto umano di soccorrere chi è in difficoltà e ha molto meno di noi.
Non lo è più perché chiunque avverta in cuor suo questa spinta, deve rimboccarsi le maniche, una volta sul posto, e farsi egli stesso uno di quelli presso i quali è stato mandato.
Abbattere steccati pretenziosi, saper leggere il contesto in cui si è calato e agire per il bene di tutti indistintamente,lasciandosi alle spalle il “vecchio” uomo o la vecchia donna ,se si tratta di una donna, è questo , solo questo, il compito suo.
Diversamente avrebbe potuto e dovuto scegliere di fare altro nella vita.
E poiché la complessità del quotidiano, in un mondo che corre troppo in fretta e lascia indietro chi non ce la fa, è presente oggi ovunque, tanto nelle città quanto nei villaggi rurali dei paesi in via di sviluppo, che si tratti di Africa, Rwanda nel tuo caso, di America Latina o di Asia, il protagonismo e la contrapposizione del missionario con la gente e il contesto in cui opera non hanno senso alcuno e sarebbero gli atteggiamenti i più sbagliati possibili.
Allora ritornando al Rwanda del ’94, e ai fatti politici del tempo, è giusto ricercare le responsabilità di chi le ha avute e le ha disattese in pieno, fino al punto di farsi complice di una cultura di morte ma non bisogna dimenticare chi, e ci sono stati, si sono spesi per salvare vite umane.
E lo hanno fatto.
Ed erano preti e missionari.
Tu non li hai incontrati, forse.
Ma questo non significa che non operassero, magari, nel nascondimento.
E tu non puoi saperlo.
Oggi la riconciliazione è indispensabile tanto in Rwanda quanto in altre realtà africane ,martoriate da continue guerre civili, di cui apprendiamo.
Penso al Congo stremato ma anche, da esempio, alla Costa d’avorio e alla sua recente mattanza o a quello che potrebbe, a breve, accadere in un Senegal, dove l’ingordigia del potere di un Wade è illimitata.
Il problema, secondo me, è sempre il “come” della riconciliazione.
Passare un colpo di spugna, quando ci sono stati morti in famiglia, da una parte e dall’altra, non è cosa facilmente praticabile.
Il veleno delle ideologie lascia purtroppo anche questi rigagnoli .
Io posso dirti, concludendo, che fede e politica possono incontrarsi per il bene dell’umanità.
A patto però che la fede in Gesù, se riesci ad incontrarti con Lui, non venga mai letta come un rifugio in un mondo ultraterreno (il Regno ha inizio qui ed ora) e quindi in un’alienazione dalla vita presente.
Grazie ad essa, alla fede intendo, è più agevole avere un giudizio nuovo sulla realtà e quindi sulla Storia, dribblare certi ostacoli apparentemente insormontabili,e favorire lo sviluppo di una cultura di pace ovunque noi ci troviamo.
Ovviamente quella pace che è praticabile tra gli umani che, si sa, non sono mai perfetti.
Come perfette non sono mai neanche le istituzioni.
Perfettibili, però, certamente sì.
Applicando, appunto, con intelligenza e senza pregiudizi di sorta, la ricetta della “buona” volontà.

Un abbraccione

La tua amica “italiana”

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