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sabato 24 agosto 2013

Quel "portaritratti" sulla scrivania/ Note (diciamo ) di "Missione"

Ad apertura dell’ultimo numero di “Missioni Consolata” (agosto-settembre), e mi riferisco al cartaceo, che mi arriva abbastanza puntuale per posta (ma gli amici di Jambo Africa possono visionarne l’edizione online su Facebook), esattamente a pag 5, campeggiano, questa volta, due bellissime foto di padre Benedetto Bellesi, missionario della Consolata, abile e infaticabile giornalista nonché grande appassionato di fotografia (ha lavorato fino all’ultimo come ci ricorda l’attuale direttore della rivista, padre Anataloni) oltre che persona, in modo speciale, di serena e, soprattutto, seria spiritualità. Io l’ho conosciuto. E ne piango la scomparsa. Padre Benedetto, infatti, come i più sanno, ci ha lasciati che non è neanche due mesi (la mattina del 3 luglio). Egli è stato chiamato, un po’ troppo frettolosamente (io direi), alla casa del Padre ma, come sempre per colui che ha fede, non è data ricerca alcuna di umana spiegazione in questo genere di cose. Si accetta. E basta. E noi accettiamo. Di Bellesi, così ci si chiamava in redazione, a Torino, e cioè per cognomi (così come io per loro, per gli amici missionari, ero e sono la Micheluzzi) ho già detto, in un immediato ricordo a caldo, che era una personalità, e per la statura imponente, e per il vocione e per la sua più che baritonale risata, quando ironizzava e/o ti prendeva affettuosamente in giro, che incuteva una certa quale soggezione. Dentro di me, agli inizi, mi dicevo anche che era un po’ “orso”. Ma, messa da parte l’ufficialità del ruolo, nel privato, e cioè quando non era preso interamente dal suo lavoro, ho poi avuto modo di scoprire che, semmai, era un orso molto affabile. Azzarderei, anzi, un quasi “tenerone”. E, a conferma, mi spiego. Riferisco quanto mi accadde , anni addietro, quando entrai per la prima volta nell’ufficio, lì dove padre Benedetto s’attardava quasi sempre a portare avanti il suo lavoro di giornalista. E lo faceva, spesso, anche in ore impossibili. E questo pur di chiudere, nel tempo stabilito, l’ultimo numero di “Missioni Consolata”. Marchigiano,grande lavoratore, (la redazione di corso Ferrucci, alla fine degli anni ’80, era composta da un veneto, un lombardo e un marchigiano, lui appunto), era severo con se stesso oltre che con gli altri, da cui esigeva, senza sconti, serietà d’impegno. Entro nell’ufficio, quel giorno di un luglio di tanti anni fa e, mentre padre Benedetto lavora in silenzio al computer accanto alla finestra, dalla parte opposta della scrivania, io mi soffermo a osservare per pura curiosità alcuni libri e riviste, che sono sparsi sul suo tavolo assieme all’immancabile pacchetto di sigarette e accendino. E lo sguardo, inevitabilmente, mi si posa su di un portaritratti in cui fa bella mostra di sé la stessa foto, scattata moltissimi anni prima in Sudafrica, quella medesima che si può osservare alla pag. 5 di “Missioni Consolata”, ultimo numero, unitamente ad una di lui più recente . Mi colpisce il fatto, accanto all’atteggiamento paterno con cui abbraccia i due bambini nella foto, per altro molto piccoli per età, il fatto che fosse l’unica foto sulla sua scrivania. Per me e per chi l’aveva messa un suo significato l’aveva e ce l’ha. I missionari, pensatela pure un po’ come volete, contestate pure se vi piace, sono persone, che hanno dello straordinario. Uomini e donne “speciali”. Uniscono, al dono di una fede salda in Dio , senza la quale non potrebbero mai proseguire nel loro “mandato”, quello che si chiama amore per la conoscenza autentica dell’uomo, fosse anche l’ultimo uomo della Terra. E quest’amore, accanto all’accoglienza, alla consolazione, alla guida benevola, è soprattutto trasmissione e dono di quel prezioso tesoro che si chiama la”Parola”, che tutti hanno il diritto di conoscere anche i “lontanissimi”. Salvo poi liberi di rigettarla, se non interessa loro. Rivedere, sulla rivista, la stessa foto che mi ha fatto pensare all’ importanza per un uomo dell’unicità di una scelta di vita quale è la “Missione”, nel caso la “missione “ di padre Bellesi, mi conferma, ancora una volta, quanto è importante raccogliere il “testimone” . Non lasciarlo cadere. Non mollare mai. Amare la “Missione”,un amore molto “contagioso”, amare gli amici “missionari”, capire che la “Missione “ ha bisogno di noi (nel vicino e/o nel lontano) specialmente in un momento storico molto delicato come quello attuale, significa certamente “coerenza” d’intenti di fede e impegno nelle opere di bene, per chi si dice credente. Ma anche, per affetto e stima sinceri, raccogliere e non disperdere affatto i tanti suggerimenti di vita cristiana che padre Benedetto Bellesi ci ha donato (e non solo lui tra i missionari e le missionarie amici) e proseguire lungo quei molteplici orizzonti che Egli, con la sua testimonianza, ha provato a dischiuderci attraverso i suoi reportage o le profonde riflessioni di spiritualità, sempre attinenti alla concretezza dell’esistente.// di Marianna Micheluzzi

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