mercoledì 18 dicembre 2013
Sadia /La venditrice di uova sode
Vendere uova sode al mercato è uno dei tanti mestieri informali praticabili dalle donne africane. Specie di questi tempi poi che, come in Centrafrica, la situazione politica è davvero terribile e fortemente confusa, con povertà e morte, in cui puoi incappare ad ogni breve passo. E i negozi , quei modesti empori di una volta, non esistono più.
Nemmeno a Bangui,la capitale. Se non devastati e con gli scaffali ormai vuoti, dove insetti d’ogni genere passeggiano indisturbati nel buio interno e nel tanfo insopportabile ,dovuti a una lunga incuria per l’ abbandono precipitoso di quelli che erano proprietari.
Sadia, la “vedova” come la chiamano i suoi conoscenti ( lei per loro è una straniera e lì ,al paese e nel villaggio di suo marito, appunto non ha alcun parente), è riuscita a mettere in salvo,adiacente alla casa di fango, che si erano costruiti, lei e il suo uomo, appena sposini, almeno il pollaio con alcune galline, che le regalano generosamente, a giorni alterni, delle uova.
Sadia è una vedova bianca, perché il suo uomo, partito anni fa in cerca di lavoro per il sud del continente (Sudafrica, Zimbabwe o forse Tanzania) non ha più dato notizie di sé. E lei ora ha da accudire tre bimbi: due maschi e una femmina, nati a scala.
E cioè ciascuno di essi uno o due anni dopo l’altro.
La fame si fa sentire e in qualche modo Sadia deve trovare il modo di placare il borbottio degli stomaci vuoti dei suoi figli.
Ma lei è una donna di forte temperamento,che non si scoraggia mai.
Il suo cervellino è attivo di giorno e di notte.
Così, tra un pensamento e l’altro, decide di conservare,non utilizzandole per un po’, alcune di quelle uova e di farle sode, per poi andarle a vendere in città, a Bangui, nel mercato all’aperto.
Con il ricavato potrebbe provvedere alle non poche altre necessità impellenti della famiglia.
I bambini, è cosa nota, hanno bisogno di tutto. Dai quaderni per la scuola ai medicinali quando arrivano febbri e tosse.
E quando non c’è un uomo che porta soldi in casa, bisogna necessariamente ingegnarsi.
Ben organizzata, con tanto di vassoio, un regalo di nozze di anni addietro e ben conservato, Sadia parte di buon mattino, perché laggiù per affrontare i lavori e fare risultato è importante fare i conti con la durata della luce del sole.
Trovato il suo spazio, inizia la mostra della sua mercanzia e lancia ripetuti richiami ai passanti.
Non è facile, a dire il vero, vendere perché in città serpeggia la paura di assalti improvvisi e la situazione non è affatto tranquilla.
Ogni tanto qualche ambulanza si ferma dinanzi all’ospedale di Emergency, l’unico funzionante a Bangui, e scarica feriti.
Cristiani e musulmani intransigenti, si sa, si scannano come bestie,inaspettatamente e senza troppi complimenti. E lo fa tanto una parte quanto l’altra.
La gente, uomini o donne che siano, non indugia affatto alle bancarelle. Ha fretta solo di sbrigare rapidamente le proprie commissioni e mettersi al riparo dai pericoli.
Ma,dopo alcune ore, un tempo interminabile per Sadia e, per giunta, sotto un sole impietoso, qualcuno si ferma,contratta il prezzo e acquista l’intero vassoio di uova.
Una manna dal cielo.
Incredibile- pensa tra sé la donna – e stringe tra le mani il mucchietto stropicciato di banconote.
E’ un uomo giovane, una figura distinta ed è anche troppo ben vestito per il contesto.
Nel cuore della donna alberga soltanto la gioia del ritorno al villaggio dai figli, che l’attendono.
Incurante del lungo percorso a piedi, prende di filato la strada di casa con passo deciso e intanto pensa di ripetere altre volte ancora la medesima esperienza.
Farà felice i suoi bambini di certo ma, assieme all’ingrato lavoro dei campi per cui si deve guardare sempre e di continuo il cielo e attendersi la pioggia, Sadia ha scoperto che c’è un altro modo per fare qualche soldo con onestà.
Anche senza l’appoggio indispensabile di un uomo.
Basta un po’ di pazienza e un po’ d’intraprendenza. E, soprattutto, salvaguardare dai male intenzionati le sue galline come si fa con un tesoro prezioso.
La gente di buon cuore, anche se si è poco propensi a crederci, s’incontra talora pure nell’inferno di miseria e di povertà come può essere quella di una situazione di guerra e di devastazione.
L’umanità sorprende sempre.
Quell’umanità che si chiama anche “Provvidenza”. (m.m.)
martedì 17 dicembre 2013
Dar es Salaam (Tanzania) /Gli Auguri di Baba Francesco
LUI, LEI E JOYCE ///
“Ahi, serva Italia di dolore ostello...
non donna di province, ma bordello”
(Dante Alighieri).
Proprio così: bordello.
L’Italia è un casino di forconi che rompono, di grillini che insultano, di berluska che ricattano, mentre tanti altri non sono farina da far ostie. E se ne fregano del dolore che attanaglia il cuore delle tantissime vittime della crisi sociale.
Questa è l’Italia sulla quale piango anch’io dal Tanzania. Ma è pure il paese al quale qualcuno annuncia: “Oggi è nato per voi il salvatore”.
È un Bambino-Dio.
Carissimi amici,
facciamo posto a questo Bambino-Dio.
Ci conviene nel bordello dell’Italia e del mondo.
Buon Natale a tutti.
- Molti di voi mi scrivono: raccontaci qualcosa di te stesso. Ebbene, quando dico che sto bene, cosa volete di più nel presente “ostello di dolore” dell’universo?
- Altri mi chiedono: quando verrai in Italia? Risposta: per la quaresima-pasqua del 2014 sarò a Torino, oltre che a Falzé.
I miei occhi, color pesce stracco, sono vittime della cataratta, e dovrò operarmi.
Ve lo immaginate un giornalista come il sottoscritto, che deve leggere e scrivere in swahili, con gli occhi che fanno cilecca?
- Altri ancora, gentilissimi, mi hanno augurato: buon compleanno.
Già, ho compiuto 70 anni. Ho letto il salmo 90 (89), che recita: “Gli anni della vita sono 70, 80 per i più robusti, ma il loro agitarsi è fatica e delusione”.
No, amico salmista, i miei 70 anni non sono stati “fatica e delusione”, bensì lavoro e consolazione, nonostante tutto e tutti.
Compiendo 70 anni, ho pure pensato alla morte. A proposito chiedo:
la bara meno costosa, nessun fiore, nessuna predica. Al termine della preghiera, se potete, cantate un inno alla Madonna. Seppellitemi dove muoio.
E che il Buon Dio mi usi misericordia.
Come sapete, sono un missionario giornalista e “procuratore”.
“Procuratore” significa: se un missionario confratello deve partire, gli “procuro” il biglietto; se ha bisogno di un filtro per l’acqua, glielo “procuro”, se necessita di un pezzo di ricambio per l’auto in panne, glielo “procuro”, eccetera, eccetera.
Inoltre accolgo i parenti e gli amici che visitano i missionari in Tanzania.
Lavoro con Nadia, missionaria laica della Consolata.
Durante la scorsa estate sulla porta della casa-procura di Dar Es Salaam si sono affacciate numerose persone, anche discutibili.
Lui e lei si sono presentati così: “Cerchiamo un posto per meditare la parola di Dio”. Vanno in cappella. Dopo mezz’ora sono ancora là, in silenzio.
Lei parla con uno sguardo luminoso e lungimirante e lui risponde con occhi dolci e sicuri. Lui e lei, giovani morosi, con la Bibbia in mano.
Finalmente Joyce arriva. Ma, a dispetto del suo nome, è stravolta. Ha camminato due ore sotto il sole spietato di Dar Es Salaam.
“Padre, scusa: sono in ritardo di due ore sul lavoro. Domani resterò a casa, perché non ho soldi per pagare l’autobus. Aspetterò fino alla fine del mese, quando prenderò la paga”.
Vedo gli occhi di Joyce gonfi di lacrime e fatica. Metto una mano in tasca e trovo qualcosa...
Un giorno a quel Bambino-Dio, nato in una stalla di Betlemme, qualcuno offrì oro, incenso e mirra.
Ed io che dovevo fare di fronte alla stanchissima Joyce?///
p. Francesco Bernardi,
missionario della Consolata
P. O. Box 4885
Dar Es Salaam
lunedì 30 settembre 2013
La iena e lo sciacallo / Chi troppo vuole nulla stringe
Un giorno qualunque di un anno qualsiasi (nelle favole non importa mai quale sia) una iena, che passeggia per caso in una foresta di baobab, s’imbatte in una gazzella,oramai priva di vita.
Leccandosi i baffi dal prepotente desiderio, immagina già il suo gustoso pranzetto di mezzodì. All’improvviso, però, avverte in lontananza il”noto” calpestio, che indica il sopraggiungere delle altre sorelle iene.
Prima che esse potessero essere da lei, la “nostra”, che teme di perdere in un battibaleno la “sua” ghiottoneria, le precede e s’affretta ad andare loro incontro, mentendo sul fatto che, a qualche miglio da lì, c’è di certo un gregge di pecore, tutte morte, che possono rappresentare un’autentica goduria per saziare l’appetito.
E le credulone, affamate come sono, non ci pensano affatto su due volte e le danno ascolto all’istante.
E via , di corsa, in branco si muovono nella direzione opposta.
Intanto la “nostra” , tranquillizzata, ritorna dove aveva scoperto la gazzella.
E, sorpresa delle sorprese, il suo “ pranzetto” lì, in quel punto, proprio lì, non c’è più.
Era accaduto che, durante l’ assenza, uno sciacallo ( il “fattaccio” glielo rivela un rapace di passaggio,che è in sosta sul ramo di un baobab), che non è meno avido e predone delle iene, aveva pensato lui a banchettare con carne di gazzella tenera senza neanche attendere il mezzogiorno.(m.m.)
martedì 10 settembre 2013
Milano /"Women in Business" /Africane e no
Milano / “Women in Business” /Africane e no
Il prossimo 17 settembre, al Piccolo Teatro Strehler di Milano, è attesissima la conferenza, organizzata da Deutsche Bank Italia in partneship con l’Eni, che vedrà affrontare con il pubblico presente in sala (maggioritarie saranno senz’altro le presenze al femminile) sette donne leader (africane e no), ciascuna esperta del proprio ambito lavorativo, intorno al tema del cosiddetto sviluppo “sostenibile”.
L’incontro è previsto articolato (si partirà come orario nel primo pomeriggio alle 15,30) in due momenti di riflessione , ciascuno dei quali sarà sempre preceduto da un video breve, il quale mirerà a sottolineare lo specifico di un confronto tra le differenti economie africane e quelle europee.
E questo, ancora una volta, nella convinzione che una collaborazione fruttuosa (Europa-Africa), in un clima che sia di pace e di autentica democrazia, possa pagare .E anche bene. E per entrambe le parti in causa.
L’Eni in Africa ha un’esperienza professionale sul campo molto provata e di vecchia data, senza sottovalutare per questo, accanto alle luci, le immancabili ombre, che pure ci sono state e che nessuno intende negare. Resta, però, che il continente africano presenta per noi europei alcuni elementi distintivi che devono contare. Elementi che non ci possiamo permettere di trascurare con i tempi che corrono. E che semmai, con modestia, sarebbe il caso di tenere ben presenti.
Nel ruolo lavorativo al femminile, ad esempio, le donne africane fanno registrare un tasso di crescita, negli ultimissimi anni, addirittura di molto superiore a quello europeo (le statistiche in possesso di Ban Ki-moon, segretario generale delle Nazioni Unite, per l’Italia ci dicono, addirittura, che essa risulta essere all’80’ posto dopo il Ghana e il Bangladesh). E, dando tempo al tempo, si perverrà per tutte le donne dei Paesi in via di sviluppo anche all’accesso allargato di beni e servizi proprio come già accade, al momento, in Europa e in altre parti del pianeta.
E, a dirla tutta e bene, l’impegno delle donne africane non riguarda solo l’artigianato, la piccola industria e/o il commercio o le professioni ma anche la politica.
Nel Rwanda di Paul Kagame si registra da molti anni, e senza tema di smentite, la più alta percentuale di donne in Parlamento rispetto ad altri Paesi nel mondo.
Ritornando al meeting di Milano (Women in Business and Society), esso giunge per la prima volta in Italia.
Sono attese dall’Africa, in particolare, la liberiana Leymah Gbowee, Premio Nobel per la Pace e, soprattutto, direttore di “Donne per la Pace e la Sicurezza in Africa”e la mozambicana Esperanca Bias, ministro delle risorse minerarie del Mozambico, che entrambe parleranno dell’importanza dello sviluppo energetico, che all’Africa oggi fa problema e, quindi della partnership pubblico-privato.
Oltre alle africane ci saranno un’islandese (l’Islanda per molti di noi è assolutamente un mondo sconosciuto e tutto da scoprire), una cubana e numerosi importanti nomi di italiane,alcuni dei quali noti anche al grosso pubblico come Paola Severino, docente di Diritto Penale e già ministro della Giustizia, e Suor Giuliana Galli, membro del Consiglio generale della Compagnia di San Paolo.
Conduttrice dell’incontro e moderatrice degli interventi sarà la nota giornalista di Rai News24, Monica Maggioni, affiancatae supportata nello specifico di alcuni contenuti di settore, per l’intera durata ,da Paolo Scaroni (amministratore delegato Eni) e da Flavio Valeri (amministratore delegato Deutsche Bank Italia).
E tutto perché, anche il superare le differenze di genere nel campo lavorativo, vuol dire oggi promuovere quella crescita responsabile, che tutti auspichiamo, capace di guardare lontano. Molto lontano. Fare divenire , insomma, il”futuro” un po’ più “presente”. E “donna” che lavora è più bello. //(m.m.)
lunedì 9 settembre 2013
Somalia / Paura e morte sempre dietro l'angolo /Urge impegno contro il fondamentalismo islamico
Sabato scorso , a Mogadiscio, capitale della Somalia, c’è stato un grave attentato in un rinomato hotel cittadino e nell’ adiacente ristorante L’ennesimo, in città, in questi ultimi mesi.
Preciso il “rinomato” in quanto l’hotel, così come il ristorante, erano entrambi certamente noti agli attentatori per essere luoghi frequentati da funzionari del governo e dalla gente bene del posto.
Il bilancio provvisorio dell’accaduto, destinato a salire, era, almeno fino a poche ore fa, di quindici morti e di oltre una quarantina di feriti.
Si ritiene che l’esplosione sia stata opera di un attentatore suicida come è notoria modalità d’azione del gruppo islamico fondamentalista al-Shabaab.
Non c’è stata, tuttavia, nessuna rivendicazione ufficiale.
E’ superfluo sottolineare che questo genere di danni mettono con le spalle a muro tutta la buona volontà del nuovo corso politico somalo, il quale ha un forte bisogno di stabilità interna per favorire in particolare l’ingresso in Somalia di nuovi investitori stranieri e d’ indurre anche gli stessi cittadini somali della diaspora ad un possibile rientro.
Infatti, a prescindere dallo “specifico” somalo ( piaga della pirateria per fare cassa e autofinanziarsi da parte dei ribelli e/o terroristi),che poi riguarda un po’ tutto il “Corno d’Africa”, incluse alcune regioni costiere del Kenya (malcontento delle popolazioni locali e ricerca estrema di autonomia amministrativa) , banche d’affari e istituti di ricerca indicano ultimamente, per una futura ripresa dell’economia globale, proprio il continente africano.
E la tesi, salutata con ottimismo da più parti, poggia su numeri come il 7% di crescita stabile generalizzata, il 10% delle riserve mondiali di petrolio (Nigeria ma non solo), l’8% di gas.
E sempre queste stesse analisi raccontano di un’Africa, sette tra i suoi più importanti Paesi,che dal 2005 al 2010 sono entrati a fare parte di diritto delle economie in più rapida espansione.
Senza contare che, entro il 2040, questi stessi studi prevedono che la popolazione giovane del continente (l’età media degli abitanti dei Paesi africani tende stabilmente al basso) sarà la forza lavoro più numerosa del pianeta e, con i suoi mezzi economici adeguati, anche quella stessa che usufruirà maggiormente di beni e di servizi.
E non è affatto, trattandosi di previsioni economico-finanziarie,di quanto scritto o letto in un qualsiasi libro dei sogni.
Ecco allora, concludendo, l’imprescindibilità dell’impegno di tutti (e non solo il sostegno strettamente economico della UE alla Somalia) per debellare da quella terra, che ha già sofferto abbastanza, l’islam fondamentalista.
E occorre farlo presto e bene.
Il “cancro” bisogna resecarlo.
Chi la pensa in maniera differente, ha interesse a proporre e a perpetuare un ‘Africa stracciona, buona solo a impietosire e a mendicare aiuti, con scopi altri.
Ma è bene sapere che molti di questi “nostri” stereotipi laggiù, da tempo, si sono infranti.
Nessuno nega che c’è ancora tanto da rimboccarsi le maniche per migliorare le cose come è normale che sia e combattere, ad esempio, la piaga purulenta della corruzione.
Solo che, trattandosi di un continente vasto e variegato, e con una “sua” storia particolare, occorre più rispetto da parte dell’Occidente generalizzato (e, quindi, anche da parte nostra) nelle parole e nei fatti.
Nonché imparare, con umiltà, a sapere osservare i cambiamenti di uomini e cose. //(m.m.)
domenica 8 settembre 2013
E' tempo di andare a scuola / Se il bambino sale in cattedra ( "Enendeni" 2014)
In Africa il tuo ragionamento tanto più è convincente quanto più ti avvali di un proverbio...
Anche nel continente nero, come in tutti i continenti, le raccomandazioni ai bambini si sprecano. Forse, però, un proverbio è più efficace di 100 “ti raccomando: fa attenzione!”.
Circa l’educazione dei figli, ecco alcune frasi-proverbio africane: “Un bambino è il risultato dell’educazione ricevuta”; oppure: “Correggi il bambino quando è ancora piccolo”; ed anche: “Un bambino obbediente sarà una benedizione”.
Pillole di saggezza di sempre, che investe grandi e piccoli.
Tuttavia nessun proverbio è tanto saggio ed innovativo quanto “se non vi convertirete per diventare piccoli come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli” di Gesù di Nazaret (cfr. Matteo 18, 3).
Di regola a scuola vanno bambini e giovani. Però, nell’ottica di Gesù, esiste “una scuola permanente” che riguarda tutti, adulti e anziani compresi.
E, fatto davvero rivoluzionario ed unico, sulla cattedra di tale istituto siedono i bambini.
Dunque, a scuola dai bambini!
In Italia (e in tanti altri paesi) già si programmano le prossime agende, con il calendario del 2014. Banche, fabbriche, università, supermercati, riviste, nonché diocesi e parrocchie... tutti vantano le loro agende con il calendario 2014.
Il Tanzania non fa eccezione.
Anche “Enendeni”, la rivista missionaria in swahili del Tanzania, propone il suo calendario per 2014. Un calendario tutto incentrato sulla figura del bambino-maestro, che ha come titolo: “Benvenuti, bambini”.
Ogni mese propone un passo del Vangelo, riguardante bambini, che “insegnano”.
Ad esempio, l’espressione citata “se non vi convertirete per diventare piccoli come i bambini”, il calendario 2014 di “Enendeni” la commenta così: “I bambini svelano l’inganno e la superbia dei grandi. Essere come i bambini significa essere docili. In tale logica, la vera grandezza è l’umiltà che presta attenzione agli altri. Il bambino è paradigma di umiltà, perché dipende sempre dagli altri nelle sue necessità”.
Pero ci sono pure bambini viziati, che vogliono solo giocare e ballare (cfr. Matteo 11, 16-19). E il calendario commenta: “I bambini che vogliono solo spassarsela rappresentano gli uomini e le donne di sempre che rifiutano la salvezza di Gesù Cristo. Però Dio non si lascia scoraggiare dai dinieghi umani. Alla fine la sua saggezza farà trionfare la giustizia di amore”.
Un giorno Gesù si imbatte in un funerale: una mamma vedova sta accompagnando al cimitero suo figlio morto. Gesù ne ebbe compassione e risuscita il bambino e lo consegna alla madre (cfr. Luca 7, 13-15). Gesù ridona la gioia ad una vedova.
Nella società africana la donna gode di scarsa libertà. La donna dipende dalla sua famiglia e, se sposata, dal marito. La sudditanza si aggrava nel caso della vedova. Presso varie comunità africane la vedova viene automaticamente “ereditata” dal fratello maggiore del marito defunto. Alla vedova senza figli vengono poi sottratti i beni lasciati dal marito.
Gesù, risuscitando il figlio della vedova, contesta una cultura di schiavitù che penalizza la donna...
Ma è, soprattutto, in dicembre che i bambini salgono in cattedra. Anzi, “un” bambino, ed è un Bambino Dio.
Dio è grande, il più grande. Però è anche “piccolo”, secondo la logica del Vangelo in base alla quale “il più piccolo è il più grande” (Luca 9, 48).
Il Bambino-Dio, nato a Betlemme, non sarà mai grande, ossia potente e ricco. Morirà in croce come uno schiavo pezzente. Però, “quando sarà innalzato, attirerà tutti a sé” (cfr. Giovanni 12, 32).
Ecco perché i suoi seguaci albergano in cuore la speranza. //
p. Francesco Bernardi, missionario della Consolata,
direttore della rivista “Enendeni”.
venerdì 6 settembre 2013
E' apertura delle scuole /Se il bambino sale in cattedra /Bambini di Tanzania
In Africa il tuo ragionamento tanto più è convincente quanto più ti avvali di un proverbio...
Anche nel continente nero, come in tutti i continenti, le raccomandazioni ai bambini si sprecano. Forse, però, un proverbio è più efficace di 100 “ti raccomando: fa attenzione!”.
Circa l’educazione dei figli, ecco alcune frasi-proverbio africane: “Un bambino è il risultato dell’educazione ricevuta”; oppure: “Correggi il bambino quando è ancora piccolo”; ed anche: “Un bambino obbediente sarà una benedizione”.
Pillole di saggezza di sempre, che investe grandi e piccoli.
Tuttavia nessun proverbio è tanto saggio ed innovativo quanto “se non vi convertirete per diventare piccoli come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli” di Gesù di Nazaret (cfr. Matteo 18, 3).
Di regola a scuola vanno bambini e giovani. Però, nell’ottica di Gesù, esiste “una scuola permanente” che riguarda tutti, adulti e anziani compresi.
E, fatto davvero rivoluzionario ed unico, sulla cattedra di tale istituto siedono i bambini.
Dunque, a scuola dai bambini!
In Italia (e in tanti altri paesi) già si programmano le prossime agende, con il calendario del 2014. Banche, fabbriche, università, supermercati, riviste, nonché diocesi e parrocchie... tutti vantano le loro agende con il calendario 2014.
Il Tanzania non fa eccezione.
Anche “Enendeni”, la rivista missionaria in swahili del Tanzania, propone il suo calendario per 2014. Un calendario tutto incentrato sulla figura del bambino-maestro, che ha come titolo: “Benvenuti, bambini”.
Ogni mese propone un passo del Vangelo, riguardante bambini, che “insegnano”.
Ad esempio, l’espressione citata “se non vi convertirete per diventare piccoli come i bambini”, il calendario 2014 di “Enendeni” la commenta così: “I bambini svelano l’inganno e la superbia dei grandi. Essere come i bambini significa essere docili. In tale logica, la vera grandezza è l’umiltà che presta attenzione agli altri. Il bambino è paradigma di umiltà, perché dipende sempre dagli altri nelle sue necessità”.
Pero ci sono pure bambini viziati, che vogliono solo giocare e ballare (cfr. Matteo 11, 16-19). E il calendario commenta: “I bambini che vogliono solo spassarsela rappresentano gli uomini e le donne di sempre che rifiutano la salvezza di Gesù Cristo. Però Dio non si lascia scoraggiare dai dinieghi umani. Alla fine la sua saggezza farà trionfare la giustizia di amore”.
Un giorno Gesù si imbatte in un funerale: una mamma vedova sta accompagnando al cimitero suo figlio morto. Gesù ne ebbe compassione e risuscita il bambino e lo consegna alla madre (cfr. Luca 7, 13-15). Gesù ridona la gioia ad una vedova.
Nella società africana la donna gode di scarsa libertà. La donna dipende dalla sua famiglia e, se sposata, dal marito. La sudditanza si aggrava nel caso della vedova. Presso varie comunità africane la vedova viene automaticamente “ereditata” dal fratello maggiore del marito defunto. Alla vedova senza figli vengono poi sottratti i beni lasciati dal marito.
Gesù, risuscitando il figlio della vedova, contesta una cultura di schiavitù che penalizza la donna...
Ma è, soprattutto, in dicembre che i bambini salgono in cattedra. Anzi, “un” bambino, ed è un Bambino Dio.
Dio è grande, il più grande. Però è anche “piccolo”, secondo la logica del Vangelo in base alla quale “il più piccolo è il più grande” (Luca 9, 48).
Il Bambino-Dio, nato a Betlemme, non sarà mai grande, ossia potente e ricco. Morirà in croce come uno schiavo pezzente. Però, “quando sarà innalzato, attirerà tutti a sé” (cfr. Giovanni 12, 32).
Ecco perché i suoi seguaci albergano in cuore la speranza.
p. Francesco Bernardi, missionario della Consolata,
direttore della rivista “Enendeni”. //
L'assenza giustificata / Spazio Poesia
Arranca
la fantasia
e il verso
zoppica
di continuo
e celia
ironico
la staffetta
di una gara
fuori tempo
e fuori spazio
nella quiete
del meriggio
assolato.
Ineffabile. (m.m.)
mercoledì 4 settembre 2013
L'Africa e "io" /Reading da pensieri e parole di Binyavanga Wainaina
“Il mondo che tu hai davanti s’increspa in tanti passaggi paralleli , un milione di corridoi della mente. Ogni giorno lanci le tue biglie fuori dal cervello e lasci che piedi, braccia e spalle le seguano. Ben presto qualche biglia s’incanala rumorosamente diretta a te, in uno dei solchi e scorre sempre più spavalda con autorità e precisione. Ogni biglia è una versione di te, intera, piccola e rotonda”.
Come i soli appunto, rimugina il ragazzino(l’io-narrante) ,il quale osserva il sole tra i rami scomporsi in tanti piccoli sé.
E ancora “Le migliaia di soli respirano. Inspirano, ombreggiati e freschi tra le foglie, e io mi lascio respirare con loro; poi sbuano luce, espirando, e mi riscaldano il corpo. Sto per immergermi completamente in questo momento quando vengo catturato da un’idea. Non è che il sole si divide in tanti pezzetti. Non si smembra in piccole parti quando scende tra gli alberi e le cose. Ogni pezzetto di sole è sempre un piccolo sole completo. Sto tornando dentro le mie braccia, le gambe e la porta (è in corso una partita di pallone tra fratelli nel cortile di casa), pronto a spiegare a Jimmy e a Ciru questa cosa delle migliaia di soli. Non vedo l’ora. Stavolta sì che mi crederanno. Quando la dirò non sembrerà una scemenza, come capita spesso, e loro mi guardano, alzano gli occhi al cielo e mi dicono che ho le rotelle fuori posto. Ridillounpo’, mi dicono. Si stanno avvicinando. Jimmy grida. Prima di tornare del tutto in me, sento che mi si squarcia un orecchio. Il pallone mi centra in piena faccia.Cado. Goool. Migliaia di soli eruttano risate umide; perfino la radio ride.”//(m.m.)
martedì 3 settembre 2013
Marocco /Il Cerchio e la Freccia /L'Arte di Farid Belkahia
Farid Belkahia, misticismo e sensualità, è uno dei pittori più affascinanti del Marocco contemporaneo.
Dotato di un forte temperamento, persegue da mezzo secolo a questa parte, nonostante l’età e una notorietà acquisita, un cammino molto speciale.
Ferocemente attaccato alla sua libertà, è difficile – sostiene chi lo conosce bene – che si faccia imbrigliare.
Ossessionato dal tema della memoria, ha pescato in passato e pesca ancora oggi, a piene mani, nella antica storia culturale del suo Paese e della sua gente per decifrare segni e riuscire a leggere i motivi della tradizione.
“La tradizione – egli afferma – è il futuro dell’uomo !”. Farid non concepisce, infatti, modernità che non sia assimilazione dei valori del passato.
Nei suoi lavori c’è l’ambivalenza del sacro e del profano e non passa inosservata una forte sensualità esplicitamente espressa.
Artista esigente, tormentato ma scherzoso,è piacevole ascoltarlo mentre parla di sé. E questo giacché lo fa da narratore provetto.
Nato a Marrakech nel lontano 1934, cresce in campagna, in una grande proprietà, che appartiene alla famiglia.
Suo padre era una sorta di avventuriero, che era riuscito a realizzare una fortuna come specialista di estratti di profumo, che vendeva soprattutto in Europa. E la cosa funzionò fino a quando i tedeschi non inventarono in seguito i profumi sintetici.
“Nella nostra casa erano ospiti di passaggio pittori e artisti stranieri, incontrati da mio padre in giro per il mondo”- precisa Farid Belkahia.
E sua madre, lui di appena due anni, lascia il Marocco proprio per seguire uno di questi in Europa.Ma lui, il nostro, della storia sentimentale della madre ne viene a conoscenza solo qualche anno dopo.
Infanzia felice? Certamente no.
Si rinchiude in se stesso e comincerà a parlare solo all’età di quattro anni.
Viene allevato dalla nonna paterna.
Un odore resterà nella memoria della sua infanzia ed è quello dell’henné, il colore rosso con cui le donne marocchine si spalmano i capelli e si decorano le mani e i piedi con delicati tatuaggi.
E il colore dell’henné, il rosso, con quello dello zafferano, il giallo, e quello del cobalto, il blu, sono i colori di Farid Belkahia.
Studia prima a El Jadida e poi a Marrakech e la materia che lo interessa particolarmente è il disegno.
A diciotto anni si trasferisce nella città di Quarzazate,dove lavora come istitutore in un collegio e inizia a disegnare e a prendere sul serio in considerazione l’idea di dipingere.
Nel 1954 è a Parigi, città in cui fa piccoli lavori e s’iscrive alla Scuola di Belle Arti.
Non sempre, però, i suoi nuovi maestri lo incoraggiano. E lui dice di quel periodo della sua vita : “Tutto quello che ho imparato l’ho appreso girando nelle vie del Quartiere Latino”.
“Erano gli anni –prosegue- in cui Saint Germain de Prés ospitava, nei bistrot e nei caffè, personaggi quali César, Ernst e Dalì”.
Ma l’incontro fondamentale è con Georges Rouault. Georges il solitario, l’artista capace di guardare la vita con gli occhi di un clown. Pittore, poeta, filosofo.
Colpisce Farid l’ispirazione tragica e religiosa delle tele di Rouault , i suoi tratti rabbiosi, le sue tonalità scure , i soggetti che ironizzano le miserie umane.
Nel suo soggiorno a Praga, invece, subisce l’influenza di Paul Klee anche se i suoi colori restano comunque quelli scuri.
Approfondisce così la ricerca sull’artista Klee e subito emerge nell’artista marocchino l’ossessione del cerchio e della freccia. Segni che traducono la concezione mistica dell’uomo secondo Farid.
In tutte le opere di Farid Belkahia, infatti, è presente lo scontro tra le forze del Bene e quelle del Male, energie contrastanti che attraversano l’uomo. E dove, tuttavia, non c’è compiacenza degli abissi del male, semmai attesa fiduciosa di redenzione.
Cristo della Passione, abbandonato da Dio e dagli uomini sulla Croce, si è fatto uomo proprio per liberare l’umanità dalla malvagità.
Questo è il pensiero sotteso all’operare dell’artista.
Dal ritorno definitivo in Marocco,quando insegna per alcuni anni alla Scuola di Belle Arti, il suo percorso ,insieme a quello degli allievi è il rifiuto categorico di applicare la tradizione nei metodi. Approfondisce piuttosto l’artigianato marocchino e cioè gioielli, ceramiche, tappeti, sculture. E si circonda d’insegnanti, altri colleghi, anch’essi appassionati di tradizioni popolari .
L’obiettivo ?
Quello di realizzare un nuovo modo di fare cultura in Marocco.
E pare che Farid, considerando i brillanti successi riportati in tutti questi anni tanto nella pittura che nella scultura e altro, ci sia più che riuscito e, con lui, alcuni di coloro che sono stati, a suo tempo, allievi, nomi noti anch’essi nel mondo dell’arte del Marocco odierno.
E il nuovo modo di fare cultura significa per Farid il portare l’arte alla gente , dialogare con tutti: uomini, donne, bambini, anziani. E farlo nelle piazze e nelle strade possibilmente. Con musicisti che, magari, intrattengono il pubblico dal vivo con le antiche nenie e artisti che tracciano segni grafici su carta, pelle,legno, dando vita a forme nuove,un mix d’antico e moderno, che intrigano. E non solo, dunque,l’andare nei musei, spesso fruibili da risicate minoranze acculturate. // (m.m.)
lunedì 2 settembre 2013
Asad e Carama /La lisca di pesce /Il Griot racconta
Il piccolo Asad e il suo amichetto di giochi Carama ,in un pomeriggio rovente di mezza estate, si recano nei pressi del piccolo fiume, più pozza d’acqua che fiume, per provare a inventarsi lì una qualche astrusa diavoleria(non importa quale essa sia) e trascorrere così tutto il tempo, prima dell’arrivo del buio pesto della notte.
Che i bambini abbiano fantasia da vendere è cosa nota.
Come siamo consapevoli che l’Africa è una terra che può, all’improvviso, sorprenderci. E non dobbiamo stupirci.
E poi, ancora, a dirla tutta, il bello del villaggio africano (quello che più ci attrae da frettolosi e stressati occidentali) è che ciascuno vive in pieno la propria libertà. Non c’è mai fretta.
E tutto è “pole” “pole”. Per tutti.
C’è, infatti, chi lavora o, almeno, s’ingegna a farlo e chi cucina all’aperto; oppure chi chiacchiera sotto il grande albero e chi gioca, come fanno i piccoli, felici di un insignificante nonnulla.
Ritornando ad Asad e Carama, gli intraprendenti maschietti (che nel mentre sono giunti nel luogo convenuto ), proprio loro, i due, cominciano ad esplorare ogni cespuglio o ciuffo d’erba con grande attenzione e meticolosità.E battono il terreno palmo palmo.
Sono, infatti, speranzosi di un ritrovamento “importante” (quelli che definiscono i “loro” tesori) da poter mostrare più tardi, con fierezza, al rientro, agli altri.
Ecco, manco a dirlo che, dopo pochi passi, e neanche molto tempo poi, all’improvviso si concretizza allo sguardo di questi Indiana Jones, color ebano, quella che per noi è soltanto una lisca di pesce. Residuo probabile di un banchetto di un qualche animale affamato.
Fantasia delle fantasie, la cosa, invece, diventa molto interessante.
Assad invita all’istante Carama a sdraiarsi in terra e a cominciare a costruire insieme un credibile “castello” simil-fantascientifico da narrare agli altri nel momento del rientro al villaggio.
Carama è un po’ riluttante ma Assad è più grande di lui.
E, pertanto, non c’è scampo di sottrarsi. E obbedisce.
La misteriosa “lisca” per magia simultanea diviene un fossile di ere lontanissime.
E lui, Asad,è il suo fortunato scopritore. O meglio lo scopritore di un’intera ignota civiltà, di cui in seguito si parlerà a lungo.
Ma questo non basta, riflette Asad. E, nonostante, tutto i il clamore di cui i due saranno, senz’altro, oggetto sui “media” locali in seguito.
Occorre qualcosa di più.
Carama, allora, concorre anche lui, piccolo e fantasioso com’è.
E aggiunge serioso che, puntando con gli occhi la lisca, è accaduto che, mentre la stringeva tra le mani, essa si è trasformata in un coloratissimo bolide spaziale, che gli ha consentito di viaggiare supervelocissimo(come è quasi impossibile immaginare a qualsiasi uomo) negli spazi siderali. Proprio come ha avuto modo di vedere nei cartoons alla tv quando gli è capitato, qualche volta, di recarsi nella città vicina.
Insomma la “storia” è bella che confezionata.
E poiché il sole sta inesorabilmente per andare a dormire, anche Asad e Camara devono, di necessità, fare rientro al villaggio.
E ce ne sarà ( pensano entrambi i due fantasiosi monelli lungo il tragitto, che non vedono l’ora di terminare) il tanto e di più da stupire grandi e piccini, questa sera, intorno al fuoco, mentre si racconterà l’avventura e, sempre, con un occhio furtivo rivolto alle stelle.// (m.m.)
domenica 1 settembre 2013
L'incognita /Spazio Poesia
Atto primo/
Ci si prova (è mestiere)/
a raccontare l’essere e/
o l’esistente/
e, tutte le volte, con parole/
novelle e differenti.
Eppure , amico mio, non si è/
mai paghi del risultato./
Persino coronati d’alloro/
e confortati dal coro petulante/
di cinciallegre canterine./
Atto secondo/
Intanto lei paziente/
leggeva i miei silenzi/
meglio che le mille/
pagine erudite/
redatte con grafia/
nervosa./
E abbelliva appena /
di un roseo bagliore /
lo scoramento dell’attimo./
Atto terzo/
E poi l’andar per mare/
La vela gonfia dal vento/
E il naviglio pari a piuma/
E i tuffi ripetuti/
E la meta molto dubbia/
ma con l’intento certo/
(quello sì )/
di confondersi con l’onde/
campo mutante e incolore/
a tratti grigio, a tratti verdazzurro.//
(m.m.)
L'Italia e gli immigrati /E' una cosa piuttosto "seria"
Gli ultimi sbarchi di agosto sulle coste italiane inducono, di necessità, i benpensanti a maturare una riflessione seria sul tema dell’immigrazione, che non è più tramandabile.
E questo, essendo prossimi ad un certissimo autunno caldo in merito alla “questione” lavoro, merce rarissima di questi tempi e, dentro fino al collo, a quella che è la crisi economica generalizzata del paese.
Non fosse altro che a garanzia della pace sociale.
Prevenire i mali piuttosto che curare il malato, quando ormai il suo malanno si è fatto irreversibile, sappiamo tutti che è intelligenza del sanitario competente.
Seguendo le news che ci arrivano dall’Africa, via web, non possiamo dire di ignorare i tanti drammatici problemi di politica interna, che vivono nel presente parecchie nazioni africane.
Inoltre c’è la patata bollente della Siria, che fa temere una “terza” guerra mondiale e c’è da tenere a mente che cos’è , oggi , la “questione mediorientale nel suo insieme (fondamentalismo islamico a oltranza e in più lotta acerrima e infinita tra israeliani e palestinesi), la quale “questione”, checché si dica, non consente affatto sonni tranquilli all’Europa.
Specie all’Europa mediterranea. Un’ Europa che, come l’Italia, è tutta, che le piaccia o meno, bisognosa di importanti riforme istituzionali interne, nei singoli stati, e che se la deve vedere con le prossime elezioni tedesche, sperando di riuscire ad essere sempre meno germanocentrica.
Essendo al momento gli immigrati da noi, rispetto al passato, un numero piuttosto consistente di persone (uomini, donne, bambini) e ,per giunta, con una buona percentuale di lungo-residenti ( esclusi ovviamente gli irregolari per i quali occorre provvedere, legislazione alla mano e accordi con il Paese di provenienza, al rimpatrio volontario) necessita da noi , senza esitazione, il rinnovo degli strumenti di governo del fenomeno.
E’ limitativo e,spesso infruttuoso nei risultati,infatti, basare gli ingressi sulla sola richiesta del datore di lavoro (impresa o famiglia). Probabilmente con la reintroduzione del permesso di soggiorno inteso come ricerca di lavoro ma su garanzie probanti, le cose potrebbero andare meglio. E meglio ancora sarebbe il trasformare i permessi di studio attuali in permessi di ricerca di lavoro.
Un compito,questo delle funzioni e competenze in merito, di cui potrebbero farsi carico gli enti locali come, ad esempio, i comuni.
E,soprattutto, per cercare di alleggerire l’impegno delle forze di polizia da destinare, semmai, ad altrettanti importanti, utili quanto differenti compiti.
Caduta nel dimenticatoio, per di più, la programmazione triennale dei flussi migratori,prevista dalla Turco-Napolitano, rimasta in piedi la Bossi-Fini con tutta la gragnuola dei suoi “buchi”, si potrebbe pensare magari ad un’agenzia indipendente, i cui membri sarebbero designati dalla presidenza del Consiglio e approvati dalle commissioni parlamentari , quelle competenti in materia, per dare al Governo in carica le linee guida per programmare flussi e monitorare poi, a modo di consuntivo, a posteriori, l’efficacia delle politiche medesime messe in atto nel periodo stabilito.// (m.m.)
sabato 31 agosto 2013
Università Panafricana /Da progetto a realtà molto prossima
Sono stati stanziati per la cultura, in questi giorni, ben 45 milioni di dollari da parte della Banca africana di Sviluppo. E questo è avvenuto d’intesa con la Commissione ad hoc dell’Unione Africana (UA) per concretizzare, nel continente, la realizzazione dell’Università Panafricana.
E’ un progetto, questo dell’Università Panafricana, ideato e messo su carta, all’incirca dieci anni fa, allo scopo di riuscire coordinare la crescita culturale dell’intero continente. Sempre secondo l’intento degli estensori.
Se non saranno promesse illusorie e, magari, non ci saranno conseguenti ruberie di denaro, opera delle solite “mani leste”, che non mancano mai sotto ogni cielo, l’obiettivo degli ideatori e redattori si può dire che è quasi raggiunto.
Nell’ ottobre scorso un polo universitario è stato già aperto a Yaoundé, capitale del Camerun per quanto riguarda gli utenti dell’Africa centrale. E sono in programma, per il prossimo anno accademico, corsi universitari a Ibadan, in Nigeria, a Nairobi (Kenya) e poi,molto probabilmente, in Algeria e in Africa australe, le cui sedi sono ancora da definire.
Le materie di studio andranno dalla geologia all’idrogeologia ,all’approfondimento delle possibili applicazioni delle energie rinnovabili. Questo nel settore strettamente scientifico.
Per le scienze umane, invece, si cureranno particolarmente le tecnologie della comunicazione, indispensabili per l’inserimento del mondo del lavoro ai nostri giorni.//(m.m.)
Il sapore perduto della mia gioventù /La Poesia degli altri
Cerco un vecchio/
un vecchio che vendeva colori/
vicino ad un museo./
Cerco un vecchio
un vecchio che vendeva sogni/
ad un bambino curioso./
Trovo chiuso … /
Tutto chiuso … /
Ti ho cercato troppo tardi/
Ho aspettato troppo /
Forse sei partito … /
Ed io ora sono un uomo,/
ma mi sforzo di non pensare /
dove potrei cercarti … /
Tutto mi sfugge/
e la tavolozza dei colori ad olio /
che tu mi hai insegnato ad usare /
cade dalla mia mano tremante./
Francesco Marcucci Pinoli
-Agosto 2013
Nel tempo del Sogno.Un prete tra gli aborigeni (La Fontana di Siloe editrice-2012) / Ossia "nonsolo Africa"
Il libro di lettura del mio fine settimana conta, questa volta, meno di cento pagine e porta me, con raffinata immaginazione e tanta poesia del cuore, ancora più lontano del mio amato continente africano.
Racconta infatti, in forma romanzata di un prete trentino, Angelo Confalonieri (1813-1848), realmente esistito, primo missionario cattolico, disponibile nell’obbedienza a recarsi per espletare il suo mandato tra gli aborigeni australiani.
Dopo essersi salvato quasi per miracolo da un naufragio certo, il religioso inizia il suo lavoro sul campo che è l’anno 1846.
E, poiché amare un popolo è amarne soprattutto la lingua e la cultura, il nostro, che condivide la difficile quotidianità degli aborigeni, inizia gradualmente a compilare una raccolta di frasi, i cosiddetti “frasari”, ancora oggi interesse di studio per gli addetti ai lavori.
Accanto a Confalonieri c’è un’altra figura molto importante, che è il comandante della postazione militare di Port Essington, tale John MacArthur, il quale lo collabora parecchio sul piano pratico tutte le volte che si presentano o possono sorgere inconvenienti.
Il nucleo centrale del racconto è, tuttavia, il rapporto tra il religioso e il militare e le interminabili loro conversazioni. Entrambi, a contatto con il mondo culturale degli aborigeni hanno visto e vedono, inevitabilmente, entrare in crisi alcune loro personali e radicate certezze. E sarà la”Parola”, che è “parola di vita “ per tutti, se saputa “leggere”, che li sosterrà e darà significato alle rispettive esperienze.// (m.m.)
venerdì 30 agosto 2013
Somalia / Imprescindibile la stabilità politica per il suo sviluppo a breve
Tutto il mondo guarda con simpatia agli sforzi del nuovo governo politico somalo e concorre a sostenerlo, come può, e a renderlo il più possibile esente da assurde conflittualità anche interne, in quanto è auspicabile che il Paese, la Somalia, ritorni, dopo anni e anni difficilissimi, ad essere terra di pace sociale e d’investimenti redditizi.
Inciampo su questo percorso si era frapposto, come ben sappiamo, giorni addietro, il caso di “ Kismayo”, città strategica, rivendicata nella spartizione territoriale dalle regioni del Basso e Medio Juba e di Gedo (Stato federale del Jubaland) e, finalmente, risolto dopo lunghe discussioni che è poche ore, ad Addis Abeba (Etiopia), in sede UA (Unione Africana).
Ciò significa che Kismayo (porto e aeroporto) rimarrà solo per sei mesi sotto la gestione del governo centrale somalo, com’è adesso, per poi passare sotto le direttive di un organismo specifico, i cui componenti saranno nominati a febbraio prossimo.
Nel mentre la giornata del 16 settembre, a Bruxelles (UE), si prenderanno in esame e si discuterà della validità di alcuni progetti e di finanziamenti opportuni per la Somalia .
Nulla è facile laggiù in situazione (è quello che ci dicono gli osservatori di “cose” somale), anche se questa opzione per Kismayo, in un quadro complesso, ha senz’altro del positivo, perché è noto che il parlamento di Mogadiscio è bloccato da troppi mesi e la creazione di un apparato di sicurezza stenta parecchio a decollare. Mentre sappiamo bene, per l’uno e per l’altro, quanto una loro funzionalità efficiente sarebbe necessaria. //(m.m.)
giovedì 29 agosto 2013
" Persino il mare muore..." /La Poesia degli Altri
Persino il mare muore/
Disse Garcia Lorca/
Piangendo un altro./
Ma io non mi consolo/
Per la morte del mare/
Bianchi gabbiani gridano/
Rauchi e penetranti/
Chiamandosi l’un l’altro /
In archi impazziti /
Sul mare melodioso./
Sei certo che morirà?/
Che prova esiste/
Per dimostrarlo,/
Forse che non si muove, non appare /
Alla nostra piccola visione?/
No, strillano i gabbiani/
Con il loro senso selvaggio, Noi che l’amiamo più di tutti /
Sappiamo che la sua morte sarà certa e tremenda /
Perché noi moriremo con lui. // Ruth Miller (poetessa sudafricana)
Minatori bambini in Tanzania /Lo riferisce Human Rights Watch
In questo mese d’agosto, ci dicono gli astronomi, che si è accesa nel cielo una stella nella costellazione del Delfino e che essa è visibile, ricorrendo all’utilizzo del binocolo, appena poco prima della mezzanotte. Il suo nome è “Nova”.
Ma le stelle, anche “Nova” quindi, non brillano mai a quell’ora per accompagnare i sogni fantasiosi di tanti bambini del Tanzania, pesantemente addormentati sulle lacere stuoie nelle modeste abitazioni del loro villaggio o in una catapecchia di città, dove la convivenza è quasi sempre difficoltosa.
Questi, cui è stata strappata da subito l’infanzia e con essa il piacere dei giochi e il diritto all’istruzione, che non hanno neanche dieci anni (forse l’età s’aggira intorno agli otto), si levano, ogni mattina, che il sole non è ancora del tutto sorto, per andare a lavorare, sotto padrone, nelle miniere d’oro del Paese.
Quelle stesse miniere, che poi fanno ricche le società appaltatrici e i maggiorenti del luogo e titillano tutte le possibili e immaginabili vanità di un Occidente ancora per poco benestante.
Lo riferisce un rapporto della Ong statunitense “Human Rights Watch”.
E il rapporto sottolinea inoltre che quanto accade nelle miniere visitate,per il momento solo in numero di undici, contraddice platealmente le leggi internazionali sul lavoro per quel che concerne le forme di sfruttamento, che sono state sottoscritte, a suo tempo, anche dal Tanzania.
E, sempre il rapporto, precisa la pericolosità per la salute (avvelenamento), facendo riferimento alle quantità consistenti di mercurio con cui i piccoli minatori sono costantemente a contatto nelle fasi di separazione del pregiato minerale dagli scarti.
La notizia è arrivata anche sui media locali ma si dubita, e fortemente, che qualcosa possa cambiare nel giro di poco tempo.
Esiste nel Paese, una forma lieve di censura, che tanto lieve non è , e che non permette né alla stampa, né alle emittenti radiofoniche e/o televisive di affrontare eventuali contraddittori su verità scomode.
Il Tanzania è il quarto produttore d’oro del continente africano.
Questo è ciò che conta per la politica governativa.
E le sue esportazioni procedono così tanto alla grande che, secondo la Banca Centrale di Dar es Salaam, nel 2013 (documentazione alla mano) hanno superato il valore di un miliardo e 800 milioni di dollari.
I minatori bambini possono aspettare. Innanzitutto il “profitto”. // (m.m.)
mercoledì 28 agosto 2013
L'acquario / Spazio Poesia
Pesce pagliaccio/
sognatore indomito/
di mari lontani/
bella creatura /
dai superbi colori/
regale natante/
ti scorgo/
che stai/
da troppo/
ormai/
fuori contesto/
e intorpidito /
prigioniero di /
un acquario/
di lusso che/
che è arzigogolo /
di umani cervelli/
e in un non-luogo/
esemplare demarcazione/
tra l’ essere e il non essere./
Frangi, allora, quel vetro/
(per favore) e salvati./
Un’esistenza mesta /
non t’appartiene./
L’oceano –mare chiama./
(m.m.)
La ribellione dell'Amistad insegna /Una lettura per affilare le armi del coraggio e dell'intelligenza
Una volta, anni ’70 del secolo appena trascorso, “vacanze intelligenti” era lo slogan per l’estate, esibito da chi non volesse scegliere vacanze di massa allo scopo di potersi differenziare dai tanti comuni mortali. Oggi che gli italiani (intelligenti e no) è già tanto se, in questi mesi estivi, sono arrivati a potersi concedere un paio di giorni di stacco dalla consueta routine del lavoro e della casa, c’è una lettura, che è utile, in situazione, e che consiglierei, nei momenti di pausa, al posto della visione della trita, melensa e soporifera tv.
Mi riferisco alla vicenda storica dell’Amistad, la nave negriera nella quale gli schiavi destinati al Nuovo Mondo, nel lontano ‘800 si ribellarono, ammutinandosi agli schiavisti, per conquistare la propria personale libertà.
Un’attenta lettura dell’episodio storico e dei suoi protagonisti può insegnarci, probabilmente, ancora qualcosa.
E questo giacché esistono anche oggi, molto vicine a noi, forme di asservimento ad un sistema politico-sociale, che ci fa navigare da troppo tempo in “zona” grigia senza mai intravedere approdo.
E sarebbe ora, io dico, di smetterla con la passività.
Per accertarsene basta chiedere un po’ in giro ai giovani trentenni (e magari a qualcuno anche con qualche anno di più) con tanto laurea in tasca, ben conseguita ma senza l’ombra di uno straccio di lavoro.
E , poi, come se non bastasse, c’è persino il furbastro o i furbastri di turno, che speculano sulle povertà emergenti, che non sono poche. Questi attizzano il fuoco, a ogni pié sospinto, e mettono,se i grulli ci cascano, italiani e immigrati gli uni contro gli altri con tendenziose e allarmistiche notizie.
Ma ritornando al libro di Markus Redker, edito che è pochi mesi dalla Feltrinelli, esso, un po’ romanzo e un po’ saggio, ci conduce, indietro nel tempo, a una notte senza luna del lontano giugno 1839, quando l’equipaggio della goletta “Amistad”,tutti africani venduti e destinati alle piantagioni d’America, si ammutina e prende interamente il controllo dell’imbarcazione.
Questi stessi uomini,centrato l’obiettivo, credendosi nell’immediato liberi, cercano poi un porto sicuro.
Invece finiscono prigionieri nel Connecticut, catturati dalla marina statunitense. Il positivo della storia è che grazie ad una lunghissima ed estenuante battaglia legale, essi riescono ad ottenere in seguito la libertà tanto agognata e, per giunta, grazie a una sentenza della Corte Suprema, che farà epoca.
E, da quel momento in avanti, ci sarà per molti di loro anche il ritorno in Africa.
Non occorre qui dilungarsi sulla disumanità della tratta degli schiavi e del commercio triangolare (Africa-Europa-Americhe),tutti aspetti che in qualche modo conosciamo per averne letto sui manuali scolastici, semmai c’è da apprezzare la ricerca storiografica di Redker, l’autore, relativa alle fonti africane. Essa ci consente di sapere parecchio di quale pasta d’uomo fossero questi ribelli e di che valenza fosse il loro coraggio per essere usciti vincitori da una disputa giuridica , impensabile per i tempi.
Tempra e coraggio di questi uomini è quanto occorrerebbe anche a noi, politicamente oggi, per provare a uscire da una certa forma di apatia rassegnata, che non fa bene proprio a nessuno. Né ai giovani e giovanissimi, né a quelli che non lo sono più e che trascinano un’esistenza da sconfitti senza aver cercato di usare le armi. Quelle dell’intelligenza, almeno.
Buona lettura allora e, soprattutto, a lettura ultimata, buoni propositi.
Leggere è sempre e comunque un “crescere”.//(m.m.)
martedì 27 agosto 2013
Monti Nuba (Sudan) /Dove la scuola è promozione umana
E’ un “qualcosa”, l’assunto del titolo, su cui dovrebbero interrogarsi e riflettere i nostri studenti. Specie quelli con poca buona volontà. E farlo, considerando che siamo in prossimità dell’apertura delle scuole.
Settembre non è neanche troppo lontano e il ritorno nelle aule e sui banchi, che piaccia o meno, non tarderà. E sarà meglio per tutti fare della scuola uno strumento di promozione piuttosto che il solito guscio vuoto, di cui lamentarsi in proposito o a sproposito.
E la scuola appunto sta per ritornare anche nel quotidiano delle comunità dei Monti Nuba, nel continente africano, in cui l’ esistenza personale, che tu sia giovane, vecchio o bambino, è a rischio continuo da molto tempo.
Sono condizioni di vita , quelle delle popolazioni nubiane, che a noi occidentali, coccolati nelle nostre comode case, farebbero e fanno, se avessimo la ventura di trovarci laggiù, accapponare la pelle.
La guerra tra l’esercito sudanese e i ribelli del Movimento di liberazione del Sudan-Nord (Splm/N) non consente tregua .
Coglie a tradimento persino il più smaliziato degli uomini.
Preme inesorabilmente, togliendo il respiro e tormenta la povera gente , per lasciare da troppi anni, sul terreno, soltanto morti da seppellire e feriti da curare.
Il clima impietoso ci pensa, poi, a fare il resto.
C’è siccità e, con essa, inevitabilmente fame. Tanta fame.
Ecco, allora, che la disperazione, in una situazione del genere, per giunta continuata, non potrebbe che essere alle stelle.
Ma il popolo Nuba, un popolo bello e fiero, mostra coraggio e non si arrende mai.
E, semmai ,cerca in fretta l’antidoto, riuscendo, nonostante tutto, ancora a tirare fuori un sorriso.
Per riempire gli stomaci si è pensato allora, e con un po’ di speranza di riserva, ad esempio, agli appezzamenti di terreno, quelli che sono più vicini alle abitazioni, tutti da trasformare in orti.
E questo per poterli governare meglio insieme ai pochi animali da cortile (per chi li ha), facili da gestire, che forniscono, al bisogno, carne e uova.
Per l’acqua, si sa, le donne provvedono, sempre loro, scarpinando a piedi nudi per chilometri. Rischi inclusi a loro carico. E sappiamo, anche qui, di che genere di rischi si tratta.
Ma la cosa più importante di tutte, cui tengono ,senza riserve, genitori e figli di queste comunità dei Monti Nuba è la scuola.
Il poter frequentare la scuola è, oltretutto, segno di prestigio sociale.
La scuola significa sapere leggere e scrivere. La scuola è cultura (informazione attuale e conoscenza del proprio passato) ma è anche possibilità di apprendere un mestiere utile a potersi costruire in seguito un futuro dignitoso e mettere su famiglia con certe garanzie.
E per garanzie s’intende il non essere costretti a migrare né all’interno del continente, né tantomeno all’estero.
Con l’aiuto della diocesi di El Obeid accade appunto, ed è di questi ultimi mesi (per cui siamo felici di riferirlo), che alcune suore comboniane, di rientro in quell’area tormentata, si stiano impegnando a riaprire, nell’ampio territorio delle differenti e più importanti comunità dei Monti Nuba, sia le scuole primarie (tre per la precisione in diverse località raggiungibili dai più) che un istituto d’istruzione secondaria. E, ancora, l’apertura di un altro istituto che sarà predisposto, esclusivamente, alla formazione degli insegnanti.
Per le popolazioni è una bellissima notizia anche se i genitori di chi potrà permettersi di frequentarle sanno bene che ci saranno ulteriori gravami economici sull’intera famiglia tra tasse scolastiche e spesa per la divisa.
Perché lo studiare in Africa costa. E costa, come ben sappiamo, parecchio anche.
Ecco , allora, che ciò (il sacrificio degli adulti) sarà per la gioventù nubiana una spinta aggiuntiva a fare necessariamente bene.
I nostri giovani invece, i virgulti debolucci di casa nostra,tutti diritti e quasi niente doveri, di cui facciamo quotidiana esperienza quando c’imbattiamo in essi, e ci degnano con tollerante sufficienza della loro attenzione, i quali questi valori li hanno già messi ben bene al riparo nel dimenticatoio, vista l’aria che attualmente soffia (il nostro Paese e l’Europa tutta sono un po’ in panne), farebbero bene, forse, a disseppellirli e ad aprire, a partire dall’autunno prossimo, qualche libro di più.
Che ne dite?
L’esempio “estremo” dei nubiani può essere calzante allo scopo sempre, però, se si hanno occhi aperti e orecchie, che hanno intenzione di ascoltare.// (m.m.)
lunedì 26 agosto 2013
Bressanone (Bz) /Congresso internazionale di Teologia cattolica /Migranti e stanziali in Europa / Ricerca di dialogo
Dal 29 agosto al 1 settembre si terrà nella cittadina di Bressanone, in Alto Adige, il Congresso internazionale di Teologia cattolica, il cui tema centrale sarà : Dio, il linguaggio religioso, i linguaggi del mondo.
Ne dava notizia e ne argomentava in merito, su il Sole24Ore di ieri, Bruno Forte, teologo di chiara fama e attuale arcivescovo emerito della diocesi di Chieti-Vasto.
Forte, napoletano colto e dialetticamente raffinato come pochi, che conosciamo da sempre, per averlo seguito nella sua attività di studioso, attraverso conferenze, giornate di studio e pubblicazioni, mette subito, e occorre dirlo giustamente, l’accento sulla compresenza inevitabile ormai nella nostra Europa di più confessioni religiose con cui confrontarsi e convivere nella quotidianità. E questo per noi, i nostri figli, i nostri nipoti. Il tutto dovuto ai continui e ripetuti movimenti migratori di persone, di differente sesso ed età, in provenienza da altre nazioni o, addirittura, come ben sappiamo (e sono i più) da altri continenti.
Ed è qui il problema da porre in analisi in cerca di una possibile agevole soluzione (ciò che faranno senza dubbio gli studiosi partecipanti al congresso di Bressanone) specie se non si vuole affrontare, e molto a breve, un’ennesima crisi, accanto a quelle già in corso, come la politica, la finanziaria, l’economica che, da sole già bastanti, non consentono sonni tranquilli ai più.
E cioè sarebbe fondamentale provare a contenere una crisi di valori di umana convivenza se si tiene conto, accanto al sopra detto, per di più, di tantissime posizioni agnostiche, che ultimamente si sono sempre più diffuse nel nostro continente e, quindi, anche nel nostro Paese.
Inevitabilmente poi moltiplicate, a dirla tutta, dalla caduta delle ideologie, mutatesi in ideologismi di scarsissimo peso.
Il teologo Forte auspica, nei singoli contesti,nonostante le scontate differenze, la creazione di più presupposti adeguati per avviare un dialogo tra credenti e non credenti in Dio.
E lo fa con un’articolata e ricca esposizione di contenuti miranti alla finalità prioritaria che è l‘abbattimento di ogni possibile muro in fieri.
Un Dio, non necessariamente cristiano, ma Creatore di tutte le cose. Umanità compresa, sopratutto.
Ecco a Chi guardare. Ecco da Chi partire.
Per il nostro, credenti o non credenti, la questione di Dio è ineludibile a meno che , egli aggiunge, non si decida di rinunciare a pensare.
Che la fede sia un rischio ce lo ricorda Pascal ,con la famosa scommessa. Ma Forte non manca di portare numerosi altri esempi , che vanno dal danese Kierkegaard (quello de “Il diario di un seduttore”) al grande mistico del Siglo de oro spagnolo, che è San Giovanni della Croce, per il quale la tenebra della fede è addirittura luminosa. E cita anche una poetessa italiana da tempo dimenticata, che è Ada Negri.
Credenti e non credenti ,egli dice, s’incontrano comunque (a meno che non parliamo di non credenti superficiali, con il cervello dato all’ammasso) perché la fede in Dio non è mai una risposta tranquilla ai nostri interrogativi di uomini e donne.
Tutto sta (e questo colpisce particolarmente nell’esposizione del teologo-vescovo ) a saperLo seguire (Dio) sulla via del dono (dono di sé) e dell’abbandono fiducioso, accettando di amarLo dove e come Lui vorrà.
E attenzione :tenere sempre a mente, insomma, il “dove “ e il”come”.
Poiché ciò vale, nostro malgrado, per tutti (il senso della vita non differisce per alcuno), ecco che il punto d’incontro è proprio qui.
Nell’incontro, in questo genere d’incontro, la creazione di un clima di autentica pace diviene possibile.
È con esso, pertanto, l’abbattimento di ogni fumosa barriera, che impedisce di riconoscere nell’altro, quale che sia il colore della pelle, la sua lingua o la sua cultura, un fratello o una sorella.
E si dà un taglio, finalmente, a quella fede statica, abitudinaria, fatta d’intolleranza. Si accoglie, si accetta, si condivide, si ama il proprio “prossimo” proprio nella sua diversità.
Il vero nodo da sciogliere, dice Forte, non è probabilmente tra credenti e non credenti ma tra pensanti e non pensanti.
Un’affermazione terribile, a ben rifletterci.
Ecco perché il mondo va male, ci bacchetta il pensatore Forte, perché noi abbiamo smesso di pensare. Per la politica (la crisi infinita e i tentativi di soluzioni rabberciate, destinate allo scacco) è la stessa cosa.
E come per la fede così per la politica non si può fare finta che siano un “non problema”. Pena il baratro sociale e la caduta esistenziale dell’intera umanità.
Il trionfo della disumanità.
Non ci prendiamo, allora, per il naso da soli è da concludere.
Cerchiamo di lavorare tutti e tutti insieme per il dialogo. La pace, in questo modo, ha parecchie probabilità di esserci. // (m.m.)
domenica 25 agosto 2013
Saggezza dell'anziano e astuzia del giovane sono un mix vincente /Il Griot racconta
Un giorno, al termine della stagione delle grandi piogge , nel nostro consueto villaggio africano, al leone, superbo re della foresta, saltò in mente un’ idea balzana, che si premurò subito di comunicare alla sua amica iena.
E cioè, secondo lui, sarebbe stato il caso di eliminare, quanto prima, dal villaggio tutti gli animali ormai avanti negli anni e, sicuramente, malandati.
E la iena, che era una ruffiana cerimoniosa di mestiere coi potenti e molto interessata, approvò all’istante la proposta del suo re.
Il primo cui fu fatta l’ingiunzione di uccidere l’anziana madre fu lo sciacallo.
Il poverino scongiurò in tutti i modi il leone di non mettere in atto il nefando proposito ma non ci furono parole abbastanza convincenti anche perché fu proprio il leone, il primo, a dare il buon esempio.
Invitò lo sciacallo a pranzo e lo fece banchettare con le carni di sua madre, l’anzianissima leonessa.
E poi, ovviamente, pretese il contraccambio di lì a pochi giorni.
Lo sciacallo, però, non si diede per vinto e si consultò con l’anziana madre per mettere in piedi un possibile piano di salvezza.
Un piano che andasse bene anche per tutti gli altri animali anziani e, quindi, in pericolo di vita.
Ci sono nascondigli segreti nella zona- gli disse la madre- e tutti gli animali, probabili vittime, dovevano assolutamente nascondersi lì fino a nuovo ordine.
Lo rassicurò.
E,infatti, così fecero tutti.
Il leone fu effettivamente invitato dallo sciacallo a banchettare, come promesso.
E gli furono propinate carni di ippopotamo putrefatto e puzzola al posto di quelle che sarebbero dovute essere della mamma dello sciacallo. E il leone, soddisfatto, nonostante fossero disgustose, si accomiatò contento d’essere stato obbedito.
Quella che ebbe l’idea più brillante di tutte fu, tuttavia, una lepre vanitosetta ma astuta.
Ella, compresa la gravità della situazione, una mattina, si agghindò di tutto punto con un abito elegantissimo e, poi, con accessori da fare invidia anche a un cieco, si recò a passeggio al mercato con lo scopo di farsi notare.
E lì incontrò niente di meno che la moglie del nostro leone, che pose mille domande, stupita com’ era dell’eleganza e ricercatezza della lepre.
E la lepre le risponse, chiaro e tondo, che solo suo marito, il leone , avrebbe potuto accontentarla in merito.Con qualche sacrificio, naturalmente.
Di ritorno a casa, allora, la leonessa minacciò il leone di abbandonarlo se non si fosse sacrificato abbastanza per lei e le avesse procurato subito abiti e gioielli sfarzosi come quelli della lepre.
Il leone, che in fondo, è un minchione, si recò immantinente dal fabbro del villaggio per privarsi dei suoi denti e delle sue unghie.
Se li avesse venduti a buon prezzo, e con il ricavato comprato abiti e gioielli, non avrebbe corso il rischio di perdere la sua amata compagna.
Purtroppo non fu proprio così in quanto nessuno , a cose fatte, volle saperne di acquistare nulla dal leone.
E il tutto avvenne proprio come aveva architettato l’astuta lepre.
Insomma il nostro leone si ritrovò ugualmente senza la sua leonessa, che lo abbandonò,sdegnata e insoddisfatta. Gli anziani animali, invece, furono tutti salvi.
E poterono finalmente uscire dai rispettivi nascondigli senza timore alcuno.
Il leone, senza artigli e senza denti, era ormai un essere disarmato e innocuo, che non faceva più paura a nessuno.
Inoltre il consiglio dell’anziana madre dello sciacallo e la “furbata” della lepre avevano sortito il loro benefico effetto.
E questo era quello che contava.//(m.m.)
sabato 24 agosto 2013
Quel "portaritratti" sulla scrivania/ Note (diciamo ) di "Missione"
Ad apertura dell’ultimo numero di “Missioni Consolata” (agosto-settembre), e mi riferisco al cartaceo, che mi arriva abbastanza puntuale per posta (ma gli amici di Jambo Africa possono visionarne l’edizione online su Facebook), esattamente a pag 5, campeggiano, questa volta, due bellissime foto di padre Benedetto Bellesi, missionario della Consolata, abile e infaticabile giornalista nonché grande appassionato di fotografia (ha lavorato fino all’ultimo come ci ricorda l’attuale direttore della rivista, padre Anataloni) oltre che persona, in modo speciale, di serena e, soprattutto, seria spiritualità.
Io l’ho conosciuto. E ne piango la scomparsa.
Padre Benedetto, infatti, come i più sanno, ci ha lasciati che non è neanche due mesi (la mattina del 3 luglio).
Egli è stato chiamato, un po’ troppo frettolosamente (io direi), alla casa del Padre ma, come sempre per colui che ha fede, non è data ricerca alcuna di umana spiegazione in questo genere di cose.
Si accetta. E basta. E noi accettiamo.
Di Bellesi, così ci si chiamava in redazione, a Torino, e cioè per cognomi (così come io per loro, per gli amici missionari, ero e sono la Micheluzzi) ho già detto, in un immediato ricordo a caldo, che era una personalità, e per la statura imponente, e per il vocione e per la sua più che baritonale risata, quando ironizzava e/o ti prendeva affettuosamente in giro, che incuteva una certa quale soggezione.
Dentro di me, agli inizi, mi dicevo anche che era un po’ “orso”.
Ma, messa da parte l’ufficialità del ruolo, nel privato, e cioè quando non era preso interamente dal suo lavoro, ho poi avuto modo di scoprire che, semmai, era un orso molto affabile. Azzarderei, anzi, un quasi “tenerone”.
E, a conferma, mi spiego.
Riferisco quanto mi accadde , anni addietro, quando entrai per la prima volta nell’ufficio, lì dove padre Benedetto s’attardava quasi sempre a portare avanti il suo lavoro di giornalista. E lo faceva, spesso, anche in ore impossibili.
E questo pur di chiudere, nel tempo stabilito, l’ultimo numero di “Missioni Consolata”.
Marchigiano,grande lavoratore,
(la redazione di corso Ferrucci, alla fine degli anni ’80, era composta da un veneto, un lombardo e un marchigiano, lui appunto), era severo con se stesso oltre che con gli altri, da cui esigeva, senza sconti, serietà d’impegno.
Entro nell’ufficio, quel giorno di un luglio di tanti anni fa e, mentre padre Benedetto lavora in silenzio al computer accanto alla finestra, dalla parte opposta della scrivania, io mi soffermo a osservare per pura curiosità alcuni libri e riviste, che sono sparsi sul suo tavolo assieme all’immancabile pacchetto di sigarette e accendino.
E lo sguardo, inevitabilmente, mi si posa su di un portaritratti in cui fa bella mostra di sé la stessa foto, scattata moltissimi anni prima in Sudafrica, quella medesima che si può osservare alla pag. 5 di “Missioni Consolata”, ultimo numero, unitamente ad una di lui più recente .
Mi colpisce il fatto, accanto all’atteggiamento paterno con cui abbraccia i due bambini nella foto, per altro molto piccoli per età, il fatto che fosse l’unica foto sulla sua scrivania.
Per me e per chi l’aveva messa un suo significato l’aveva e ce l’ha.
I missionari, pensatela pure un po’ come volete, contestate pure se vi piace, sono persone, che hanno dello straordinario. Uomini e donne “speciali”.
Uniscono, al dono di una fede salda in Dio , senza la quale non potrebbero mai proseguire nel loro “mandato”, quello che si chiama amore per la conoscenza autentica dell’uomo, fosse anche l’ultimo uomo della Terra.
E quest’amore, accanto all’accoglienza, alla consolazione, alla guida benevola, è soprattutto trasmissione e dono di quel prezioso tesoro che si chiama la”Parola”, che tutti hanno il diritto di conoscere anche i “lontanissimi”. Salvo poi liberi di rigettarla, se non interessa loro.
Rivedere, sulla rivista, la stessa foto che mi ha fatto pensare all’ importanza per un uomo dell’unicità di una scelta di vita quale è la “Missione”, nel caso la “missione “ di padre Bellesi, mi conferma, ancora una volta, quanto è importante raccogliere il “testimone” .
Non lasciarlo cadere. Non mollare mai.
Amare la “Missione”,un amore molto “contagioso”, amare gli amici “missionari”, capire che la “Missione “ ha bisogno di noi (nel vicino e/o nel lontano) specialmente in un momento storico molto delicato come quello attuale, significa certamente “coerenza” d’intenti di fede e impegno nelle opere di bene, per chi si dice credente.
Ma anche, per affetto e stima sinceri, raccogliere e non disperdere affatto i tanti suggerimenti di vita cristiana che padre Benedetto Bellesi ci ha donato (e non solo lui tra i missionari e le missionarie amici) e proseguire lungo quei molteplici orizzonti che Egli, con la sua testimonianza, ha provato a dischiuderci attraverso i suoi reportage o le profonde riflessioni di spiritualità, sempre attinenti alla concretezza dell’esistente.//
di Marianna Micheluzzi
venerdì 23 agosto 2013
"E' proibito" /La Poesia degli altri / Spazio riflessione
E’ proibito
piangere senza imparare,
svegliarti la mattina senza sapere che fare
avere paura dei tuoi ricordi.
È proibito non sorridere ai problemi,
non lottare per quello in cui credi
e desistere, per paura.
Non cercare di trasformare i tuoi sogni in realtà.
È proibito non dimostrare il tuo amore,
fare pagare agli altri i tuoi malumori.
È proibito abbandonare i tuoi amici,
non cercare di comprendere coloro che ti stanno accanto
e chiamarli solo quando ne hai bisogno.
È proibito non essere te stesso davanti alla gente,
fingere davanti alle persone che non ti interessano,
essere gentile solo con chi si ricorda di te,
dimenticare tutti coloro che ti amano.
È proibito non fare le cose per te stesso,
avere paura della vita e dei suoi compromessi,
non vivere ogni giorno come se fosse il tuo ultimo respiro.
È proibito sentire la mancanza di qualcuno senza gioire,
dimenticare i suoi occhi e le sue risate
solo perché le vostre strade hanno smesso di abbracciarsi.
Dimenticare il passato e farlo scontare al presente.
È proibito non cercare di comprendere le persone,
pensare che le loro vite valgono meno della tua,
non credere che ciascuno tiene il proprio cammino
nelle proprie mani.
È proibito non creare la tua storia,
non avere neanche un momento per la gente che ha bisogno di te,
non comprendere che ciò che la vita ti dona,
allo stesso modo te lo può togliere.
È proibito non cercare la tua felicità,
non vivere la tua vita pensando positivo,
non pensare che possiamo solo migliorare,
non sentire che, senza di te,
questo mondo non sarebbe lo stesso.
non sentire che, senza di te, questo mondo non sarebbe lo stesso.
Pablo Neruda //(m.m.)
Quale finalità per l'arte oggi ? /Un invito a leggere l'ultimissimo Arthur Danto
Un novantenne, la cui intelligenza e cultura fanno invidia senza dubbio a molti giovani e giovanissimi, ci dice a chiare lettere che i criteri classici di origine platonica (bellezza, mimesis, capacità di destare emozioni), impiegati finora dalla critica militante per la lettura di un’opera d’arte attualmente non vanno più bene. Anzi da parte dell’ illustre vegliardo un suggerimento spassionato : riporre, accuratamente, in soffitta e guardare ad “ altro”.
Parlo di Arthur Danto, filosofo e noto critico d’arte statunitense.
Di mestiere l’uomo Danto (ne sanno qualcosa i suoi allievi o gli ex e, soprattutto, i suoi fans) è un abile scompigliatore di pensiero in quel competitivo gioco intellettuale, che può essere la lettura “seria” di opere d’arte da parte da parte dei cosiddetti esperti della materia, sempre pronti, tuttavia, all’occasione, a dispensare veleni, a destra e a manca, pur di mettere in difficoltà l’avversario.
Egli, il “grande” vecchio, nell’ultimo saggio pubblicato, “What Art is”,Yale University Press (NewHaven and London) e non ancora tradotto in italiano, opera addirittura una rivisitazione del proprio stesso pensiero in materia di estetica ( non più arte considerata tale in diverse tappe d’accettazione a seconda dei periodi storici).E lascia aperta ancora, semmai, la strada ad un ulteriore possibile e arricchente percorso di definizione dell’opera.
E la provocazione sortisce l’effetto.
Infatti, quella che anche per Hegel era in un ben connotato periodo storico l’idea certa della morte dell’arte, diviene per Danto ,all’improvviso e con molteplici esemplificazioni a sostegno, non più un qualsiasi “oggetto” superato dal pensiero filosofico, come per il pensatore tedesco, ma è l’arte medesima pensiero logico. Cioè lo è essa stessa.
Questo vuol dire che l’arte ha una sua permanenza ontologica (é) e a che fare con il “vero”.
Dato per scontato che tutto è transitorio rispetto alle modalità del fare e del significato specifico di un’opera d’arte , Danto ci parla di “significato rilevante”(aboutness) e questo significato ha, al contempo, anche il compito preciso di tradurre il pensiero in materia(enbodyment). Ecco, secondo il “nostro”, il criterio da tener presente in ogni lettura.
Un significato non vale più di un altro ma esso deve esserci e sapersi incarnare al meglio.
Non importa se parliamo di un Carpaccio, di un Picasso o di un Andy Warhol o di un Duchamp, di un dipinto del catalano Segui o dei manichini del conte Nani Marcucci Pinoli di Valfesina.
E da provocatore, come già detto, il pensatore Danto la butta là per dirci che l’arte può portarci anche ad uno stato emotivo nuovo e non necessariamente positivo. E non come ne argomenta Kant nella “Critica del giudizio”, considerando ormai esaurito oggi, a suo avviso,il grande ciclo dell’arte occidentale.
Concludendo : a noi il “Rovello”. // (m.m.)
giovedì 22 agosto 2013
Il dono di Danuwa / Racconto / Il piacere della narrazione
Da sempre, al villaggio di Sererit, quello che è un Kenya un po’ ingrato, periodi di “buona” sorte e periodi di siccità, e dunque anche di carestia temporanea, si alternavano nel trascorrere monotono dei giorni, dei mesi e degli anni.
E Danuwa e la sua giovane numerosa famiglia accettavano la condizione ingrata o propizia, a seconda del momento, senza mai un cenno di ribellione.
Semmai, con paziente speranza, la donna, che pregava tanto i “suoi” antenati, memore dei consigli della nonna, una saggia donna, quanto ascoltava con attenzione le raccomandazioni del prete cattolico, la domenica, in chiesa, era certa che un giorno o l’altro le cose sarebbero cambiate e , di sicuro, in meglio.
Un pomeriggio d’inizio maggio infatti, il suo uomo, di rientro dalla città vicina, dice a Danuwa che un gruppo di persone di bell’aspetto e ben vestite, incontrate per caso all’emporio cittadino, gli ha proposto un viaggio in Europa a fronte di un gruzzolo di dollari in cambio.
I soldi occorrono per il viaggio e la mediazione nell’affare. E aggiunge che sarebbe il caso di tentare l’impresa senza esitazione per il bene di tutti.
Danuwa e il suo uomo sono sposi giovanissimi. Essi, com’è giusto che sia, sognano per i loro quattro bambini un futuro certamente migliore del loro. E il futuro la coppia sa bene che lo si costruisce con il lavoro e, per giunta, con un lavoro ben pagato.
E, soprattutto, con tanti sacrifici.
Fossero pure i sacrifici del “cuore”.
Così, proprio a malincuore, perché lo amava più dei suoi stessi occhi, Danuwa lascia che lo sposo organizzi il suo viaggio.
Quando giunge il mattino della separazione, il saluto e l’abbraccio sono carichi di commozione.
E il cuore di Danuwa è come trafitto da un machete ben affilato che la penetra. Ma nulla nella donna traspare. Lei sa cosa significa quella separazione e accarezza teneramente la testolina ricciuta del suo ultimo nato.
Le notti sono subito molto lunghe e tristi per la giovane donna da trascorrere in un letto senza accanto il proprio uomo. Le giornate, invece, per fortuna scorrono in fretta ripartite come sono tra mille incombenze nei campi,spesso sotto un sole impietoso, nei chilometri interminabili fatti per andare a procurarsi l’acqua e, infine, nelle faccende domestiche tra i giochi e i gridolini gioiosi dei suoi figli.
Trascorrono un paio di mesi dal giorno di quella partenza quando, inaspettatamente, il capo-villaggio manda a chiamare in tutta fretta Danuwa.
E Danuwa lo raggiunge con una corsa precipitosa, trascurando tutto il rimanente da fare.
E’ arrivato un telegramma ad un indirizzo in città, recapitato poi al villaggio, dove si dice del crollo di un’impalcatura in un palazzone in costruzione in una città del nord-Europa (pare ma la cosa non è poi neanche tanto certa), il cui nome non è neanche ben chiaro. E in quel crollo sono morti alcuni muratori e manovali immigrati. E non di tutti è nota l’identità.
La donna, ammutolita,senza ascoltare oltre, compie il percorso all’inverso per fare ritorno alla propria abitazione. E lì abbraccia i suoi bambini, simulando un qualcosa che assomiglia a un girotondo. Ma è un girotondo triste. Molto triste.
Danuwa sa bene cosa significherà per lei d’ora in avanti la sua vita al villaggio. E cioè quella, nel rispetto di leggi non scritte, di una donna senza il suo uomo.
Intanto,trattenendo il pianto e abbozzando un sorriso un po’ grottesco, al momento pensa solo a preparare nervosamente una ricca polenta di sorgo per quella sua nidiata, che è sempre affamata. (m.m.)
mercoledì 21 agosto 2013
Effimero / Spazio Poesia
Sudafrica /La crisi non risparmia neanche il settore dell'auto
Sappiamo ormai da tempo che le cose non vanno bene più in Sudafrica, pur trattandosi, per qualità della vita e per sviluppo generalizzato in differenziati settori della produzione, del commercio e dei servizi, il primo Paese del continente africano.
Una politica sbagliata, perché corrotta e fatta da abili corruttori in colletti bianchi, ha prodotto per gradi i suoi danni anche laggiù. E ha fatto e fa rimpiangere oggi, ma anche ieri e l’altro ieri, un po’ a tutti, bianchi o neri, quella che fu la presidenza Mandela e l’impegno serio di un ANC,che attualmente è soltanto il lontanissimo ricordo di un movimento politico, e poi partito, che seppe distinguersi con parecchi meriti in quella che fu la lotta senza tregua contro l’apartheid e mettere fine alla dominazione coloniale britannica e boera.
Altri tempi, altra epoca. Finito. Oggi c’è Zuma e il suo populismo d’accatto e una crisi economica galoppante, che non risparmia nessuno. Popolazione bianca inclusa.
In questa coda d’inverno australe (giugno-agosto), infatti, si stanno discutendo nel Paese tutti i contratti di lavoro da rinnovare e ci sono inevitabilmente una serie di scioperi a catena .
I primi, fastidiosissimi,riguardano addirittura il settore dell’auto.
La produzione automobilistica, riferiscono i media locali, è quasi ferma in quanto almeno 30 mila operai hanno disertato, in queste ultime ore, il loro posto di lavoro. E questo perché alla loro richiesta di un aumento del 14% sul salario attuale (l’inflazione in Sudafrica è al 6%), la produzione ha risposto che non sarebbe andata oltre l’8%.
Poiché il settore dell’auto incide per il 6% sul Pil nazionale e rappresenta il 12% delle esportazioni è molto chiara la gravità dell’impasse in cui si trovano i grandi produttori e con essi tutto il resto dell’indotto (piccoli produttori e lavoratori), che ruota intorno. In poche parole significa ulteriore soppressione di posti di lavoro in un Paese in cui la disoccupazione comincia ad essere (e lo è realmente ) un problema di non più facile gestione.
Se si guarda al settore minerario poi, anche lì c’è poco da sorridere.
L’Amplat, società mineraria che trae in loco i suoi profitti dalle miniere di platino, definita il “gigante” del platino, ha annunciato, a breve, il licenziamento di 70 mila persone tra minatori e amministrativi. // (m.m.)
martedì 20 agosto 2013
Torino (Italia) /Islam fondamentalista in azione /Curare per prevenire
E’ accaduto circa un mese fa, a luglio, molto prima dell’esplosione irrefrenabile delle piazze al Cairo e nel resto d’Egitto, e prima ancora dell’arresto di Morsi, il presidente arrestato e anche con pesanti capi di accusa, palese creatura e potavoce dei “dictat” della Fratellanza musulmana.
Un amico, parlandomi a telefono come siamo soliti fare almeno una volta la settimana, mi racconta, quando il discorso scivola in politica legata alla quotidianità, di un altro suo amico che, in pieno centro cittadino, ha subìto, in città, qualche giorno prima, un’aggressione piuttosto violenta, cui a stento è riuscito a sottrarsi, piuttosto malconcio.
Ma procediamo con ordine.
L’amico del mio amico - così mi viene riferito - è un imprenditore di origine egiziana residente da anni in Italia , a Torino, dove ha da sempre svolto indisturbato e con discreto profitto la propria attività.
Un pomeriggio di luglio si trova a passare, a piedi, nella zona di Barriera di Milano quando è avvicinato da un gruppo di suoi connazionali, mai visti prima, i quali lo aggrediscono, e lo colpiscono e lo feriscono nella persona, tanto che l’uomo è costretto a riparare, aiutato da alcuni passanti, al più vicino pronto soccorso per farsi medicare.
Pare che la pretestuosa motivazione dell’aggressione fosse che l’imprenditore non era un “buon” musulmano.
E le accuse gridate ad alta voce erano che lui, l’imprenditore, non aveva osservato il digiuno previsto dal ramadan.
Inutili,quindi, le risposte difensive del malcapitato agli aggressori nel tentativo di spiegare loro che egli era ed è semplicemente un cristiano copto e senza obbligo pertanto di osservare ramadan alcuno.
Questo spiacevole episodio, su cui sono comunque in corso le indagini della Digos torinese, ci dice a chiare lettere cosa significa o potrebbe significare, a breve, la lenta penetrazione di un islam fondamentalista in Europa e, pertanto, nelle nostre stesse città italiane.
E’ un aspetto del problema, quello della “tolleranza religiosa” e dell’ accoglienza allo straniero, dotato di cultura e confessione religiosa “altra”, da maneggiare con cura e molta competenza.
Certo da non demonizzare apriori , ma neanche da sottovalutare.
Potete immaginare, se tanto mi dà tanto, (e qui parliamo di un singolo episodio di nostra conoscenza e accaduto in un Paese ancora democratico e con istituzioni funzionanti)) cosa devono essere stati e cosa sono questi giorni, in Egitto, per chi non fosse, per credenza religiosa e/o posizione politica, vicinissimo ai Fratelli Musulmani.
E con la lobbie dei militari in sostituzione dei “barbuti” non c’è ugualmente da stare molto allegri.
Potrebbero raccontare ogni cosa e con dovizia di particolari i copti di laggiù che, oltre ad avere visto (e non solo ora) le loro chiese danneggiate e date alle fiamme, subiscono da tempi immemorabili terribili discriminazioni sociali nel contesto egiziano.
E questo senza che l’opinione pubblica internazionale abbia mai sollevato o sollevi la questione del rispetto .
Torino, sotto questo profilo, è una città italiana, una delle poche, che ha accolto e accoglie lo “straniero” (anche e non solo coloro che professano la religione di Maometto) con intelligenza.
E cioè nel senso che si creano da anni parecchie opportunità sul territorio per italiani e stranieri di conoscenza e d’inculturazione reciproca.
Mi viene in mente, ad esempio, il Centro Studi “Federico Peirone”, in quanto ebbi, tra laltro, a suo tempo, la fortunata opportunità di conoscere personalmente il missionario della Consolata, docente emerito di arabo ed esperto conoscitore e primo tra i traduttori in italiano del Corano, cui il Centro è intitolato, e poi le differenti associazioni cittadine come quella per il Tibet e i Diritti umani o il Centro d’amicizia italo-arabo.
E , ancora, da non trascurare tutto quanto organizza periodicamente la stessa Diocesi torinese, in piccolo, nelle singole parrocchie, e sempre con l’obiettivo mirato di favorire iniziative unitarie di dialogo.
E allo scopo di evitare il ripetersi d’incresciosi episodi in “casa nostra”, come quello di cui sopra che ho raccontato, sarà bene allora promuovere il lancio di questo genere di messaggi culturali, confessionali, politico-civici , in più città italiane.
E con lo scopo di far pervenire, per quel poco o molto che possa realmente attecchire, un messaggio di pacificazione sopratutto all’altra sponda del Mediterraneo.
Quella le cui “Primavere arabe” ci avevano fatto sognare e ben sperare che non è molto e in cui non abbiamo smesso di credere. // (m.m.)
lunedì 19 agosto 2013
Rep.Dem. del Congo /Liberati più di ottanta bambini-soldato
Una piaga che non cessa d’essere, nonostante l’impegno delle agenzie umanitarie internazionali in prima battuta e del mondo missionario poi quanto a rieducazione e graduale reinserimento (solitamente sono molto impegnati in questo processo rieducativo ,ad esempio, i salesiani), è quella dei bambini-soldato in Africa.
E’ notizia recente, infatti, dalla Monusco, in una sua nota ufficiale della scorsa settimana, della liberazione in Congo, in operazioni congiunte di più agenzie Onu, di almeno 82 tra bambini,ragazzi e ragazze, tutti reclutati come bambini-soldato dalla milizia Bakata Kalanga, che è attiva al momento nella provincia congolese del Katanga.
L’età dei giovanissimi è compresa tra gli 8 e i 17 anni e l’intervento per riuscire a liberarli è avvenuto esattamente dal 13 maggio al 15 agosto di questo anno.
Sia i bambini che le ragazze sono in buon numero ritornati presso le loro famiglie d’appartenenza ma non è e non sarà così per tutti. Alcuni non hanno più famiglia e altri ,dalla famiglia e/o dall’intero villaggio di provenienza, vengono rifiutati in quanto più che altro si temono le loro inconsulte e ingiustificate reazioni.
Di norma le condizioni psicologiche di questi minori sono bisognose di un adeguato e progressivo periodo di rieducazione proprio a causa delle sopraffazioni loro imposte, dopo e durante il reclutamento presso le milizie combattenti. Queste forme di plagio li ha resi violenti e pericolosi per se stessi e per gli altri.
Difficile è il ritorno alla normalità anche per le ragazze in quanto, quasi sempre esse, oltre che fare da cuoche e da lavandaie per gli uomini della truppa e i loro comandanti, sono abusate sessualmente. //(m.m.)
domenica 18 agosto 2013
Giscard Kevin Dessinga "Et si l'Afrique n'aimait pas la démocratie" (L'Harmattan) /da "liberamenteagosto"
Un tema in questi giorni, e non solo, di notevole interesse (vedi , ad esempio, quanto di terribile è accaduto e sta accadendo in Egitto - Mali -Repubblica Centrafricana -Sud Sudan) è il dibattito sull’esistenza o meno della democrazia politica in Africa (nonostante i Mandela, i Nyerere, i Senghor etc) e/ o su come sia possibile, almeno, provare a poterla costruire, per ottenere quei risultati tanto sperati dalla gente comune, che si chiamano convivenza armonica e pace definitiva.
E cioè non più sangue, non più morte, non più guerre, non più arbitrii ingiustificati.
Ecco, allora, di Giscard Kevin Dessinga “ Et si l’Afrique n’amait pas la démocratie?”(edizione L’Harmattan), un’autentica opportunità di riflessione in un agile saggio che, in un centinaio di pagine, affronta proprio quella strada.
Un cammino che di certo è molto in salita, in quanto un continente non si può rendere democratico per decreto.
Dessinga, un francescano congolese,un Paese africano anch'esso terribilmente ferito, rischia tuttavia nell’argomentare di non andare molto più in là rispetto al già detto in precedenza da altri studiosi del problema, perché in sostanza percorre il classico itinerario tradizionale.
Egli sostiene, infatti, che per conseguire la democrazia c’è bisogno di un duro apprendistato, che significa istruzione diffusa, relativizzazione e desacralizzazione del potere, capacità di mediazione. Proposte sacrosante e modalità “forti” ma non più bastanti alla luce dei rapidissimi cambiamenti dei nostri Tempi (apparizione di modelli culturali supportati dalle nuovissime tecnologie informatiche) e alle richieste sempre più esigenti delle nuove generazioni del Continente.//(m.m.)
sabato 17 agosto 2013
Emergenza Somalia in un'Africa a ferro e fuoco
La descrizione di quello che è in queste ore l’inferno egiziano lo lasciamo di diritto agli inviati speciali,ai giornalisti di mestiere e ai free-lance di buona volontà, che rischiano la loro stessa vita (e non è la prima volta) pur di raccontarci l’inimmaginabile cui l’essere umano, per sete di potere, ideologia politica e/o fanatismo religioso è capace di pervenire.
Quando si spegne il lume della ragione.
E ci occupiamo, semmai, di un altro dramma umano, non meno grave, che riguarda la Somalia.
La Somalia, che non ha pace da oltre vent’anni. Dove la sua gente soffre di tutto (mancanza di acqua, di cibo, malattie), muovendosi in città e/o villaggi spettrali o affrontando chilometri di marce su strade sterrate per giungere, abbandonate le proprie case, in inospitali campi profughi, che sanno più di pericoloso serraglio che di posto d’accoglienza.
E recentissima, data la situazione politica dell’area dell’intero Corno d’Africa e la tenace aggressività (leggi guerriglia) degli shabab in ogni luogo è loro possibile (reclutano persino nella Repubblica Democratica del Congo tra gli scontenti), è la notizia che MSF (Medici senza frontiere) lascia.
E sappiamo tutti quanto fosse fondamentale il suo apporto. E non solo in Somalia.
Come si dice, ed è questo il caso, i guai tendono spesso a sopraggiungere tutti assieme.
Infatti al mix di sangue, miseria e sofferenze, abituali in quel pezzo di mondo, si è aggiunta una epidemia di poliomelite, che interessa il centro-sud della Somalia e alcune zone settentrionali del Kenya.
E non c’è né personale sanitario disponibile per fare fronte e non ci sono, soprattutto, i vaccini a sufficienza, per praticare le vaccinazioni ai bambini di quelle aree.
Parliamo di 600 mila bambini circa e tutti,ovviamente, a rischio.
La difficoltà maggiore- è scritto in un Rapporto dell’Ocha – è penetrare in quei territori dall’accesso impossibile. E pare, tra l’altro, che l’epidemia di polio sia anche una delle peggiori, considerato il numero dei contagi ,già verificatisi, in un Paese non endemico da almeno sei anni a questa parte.
La salute come il diritto alla vita è qualcosa di inalienabile per tutti.
Non bisognerebbe mai dimenticarlo.
Mi riferisco a coloro che hanno responsabilità di governo e che dovrebbero tutelare la loro gente e non sopraffare o vessare.
Cosa che, purtroppo, nei fatti accade per sistema.
E,quando non è così,(l’ultimo governo somalo ha mostrato tutta la sua buona volontà per la realizzazione di una possibile ripresa economico- politico-sociale) la comunità internazionale non può, comunque, stare solo a guardare.//(m.m.)
venerdì 16 agosto 2013
da Man (Costa d'Avorio) , mercoledì 7 aprile / Reading dal diario "Un giorno come tanti" di Mirco Nacoti - edizioni Dell'Arco (MI)
La solita giovane donna proveniente da lontano, le solite ore di viaggio su strade inammissibili, la solita gravidanza molto complicata.
Taglio cesareo d’urgenza e per fortuna il bimbo è vispo.
Per la donna, invece, troppo sangue perso,troppe ore perse, troppi medicamenti assenti, troppe cose storte.
Marie Cristine, l’anestesista, è da poco in pensione e alla prima esperienza con MSF.
Piange rabbiosamente perché è stanca di vedere morire a quel modo anche se rientra negli standard.
Tanja,chirurgo trentacinquenne e cinque anni di MSF piange anch’ella rabbiosamente perché non si possono ingiuriare gli standard MSF ed è normale morire in quel modo in Africa.
Notte e solo tanta pioggia amica battente.
Mi domando : è normale morire così ? Si può accettare di morire così?
Sono stanco. Le forze sono all’osso.//(m.m.)
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