Le domeniche pomeriggio, quando ha terminato i propri impegni di routine, baba Francesco, il nostro amico missionario della Consolata, da più di un anno ormai in Tanzania, a Bunju, e anche direttore della rivista Enendeni(“Andate” in swahili), fa delle passeggiate a piedi ,macinando chilometri e chilometri, nel caldo africano, solo a tratti smorzato da poderose folate di vento proveniente dall’oceano, per scoprire i dintorni di quello che ormai è il suo ultimo e recentissimo habitat.
E , a chi glielo domandasse, risponde: solo “per sgranchirsi un po’ le gambe”, dopo tante ore di scrivania e di computer.
Domenica scorsa, in una di queste consuete sortite, strada facendo, s’imbatte quasi per caso in un villaggio Makonde , che gli era stato segnalato a suo tempo e dove non ha certo difficoltà a farsi accogliere sia pure utilizzando un swahili, che egli ritiene non ancora perfetto.
I sorrisi aiutano e il gesticolare di noi italiani completa ,specie quando si tratta di comunicare con qualcuno, che non parla la nostra stessa lingua.
E così , infatti, avviene.
Ciò che colpisce subito baba Francesco, quasi come il classico forte pugno allo stomaco, è la palese povertà della gente Makonde. Povertà dignitosa però s’intende. Come sempre in Africa.
I Makonde di Tanzania (ci sono anche i Makonde del Mozambico ) sono, infatti, agricoltori molto poveri e arrotondano per vivere, come possono, realizzando nei tempi morti,quando siccità o grandi piogge non consentono di lavorare la terra ,oggetti di artigianato.
In prevalenza si tratta di sculture, che poi vendono al mercato.
Essi, quasi tutti, maschi e femmine,per l’appunto, cominciano a scortecciare alberi sin da piccoli.
Alcuni di loro sono anche divenuti dei grandi artisti nel mondo dell’arte “nera”, conosciuti persino fuori dall’Africa. E questo sia come scultori che come pittori.
Quale pittore, per esempio, è notissimo ormai a livello internazionale George Lilanga . Ed è un makonde.
I Makonde, occorre dirlo, hanno una sensibilità e attitudine artistica decisamente non comune.
Sono in realtà di origine portoghese, arrivati in Africa secoli e secoli addietro, e divenuti poi, nel tempo e per le circostanze, stanziali nella regione montuosa vicino al fiume Ruvuna, che fa da confine tra Mozambico e Tanzania.
Ecco il perché dei Makonde del Mozambico.
Quelli del Tanzania(oggi vivono soprattutto nei dintorni di Dar es Salaam) sono di osservanza musulmana proprio per i contatti che, in passato, i loro antenati ebbero con gli arabi,che occupavano quell’area geografica, i quali non facevano schiavi, si dice, quelli che praticavano la loro stessa confessione religiosa.
Di spirito combattivo un tempo, oggi traducono la loro fierezza semplicemente nell’impegno a tenere il passo, come possono, con un’Africa che sta cambiando e anche troppo in fretta.
E non sempre è facile.
L’accoglienza dell’ospite, sia pure con i loro poveri mezzi, resta comunque una priorità.
E baba Francesco non può non commuoversi per l’offerta generosa, dopo l’invito a sedersi sulla classica stuoia.
Due parole di sincera fratellanza, scambiate con gli uomini, e una carezza, che non è mai di troppo, ai bambini dai grandi occhioni, che osservano curiosi e sorridenti nell’ attesa di quella manciata di caramelle, se l’uomo bianco sarà disponibile a farne loro dono . Mentre le donne, come sempre è costume qui , silenziose, continuano ad accudire a quelli che sono, per tradizione e cultura, i loro doveri familiari.
Una ventina di minuti in tutto o forse più è lo stare insieme e poi si saluta e s’imbocca il percorso inverso.
Sulla via del ritorno il” nostro” missionario non può non ricordare e ripensare a quanto visto e udito.
E vede scorrere, quasi come in un filmato, le scene di vita della comunità Makonde, con cui era solo pochi istanti prima. E anche per noi non sarebbe diverso.
Soprattutto torna in mente a baba Francesco, mentre schiva sabbia e pietruzze dai suoi sandali, ancora troppo “occidentali” per quel luogo, il racconto di baba Camillo, il suo amico e compagno.Quello sì un autentico veterano dei missionari in Tanzania.
Camillo , infatti, gli aveva raccontato una sera,subito dopo una parca cena al lume del gracchiante e bizzoso generatore, l’affascinante leggenda delle origini dei Makonde.
E lui, baba Francesco, allora, pivello della missione, con qualche anno di meno sulla “groppa” e nessun capello bianco rispetto all’ oggi, era stato ad ascoltarlo, affascinato e curiosissimo.
E la leggenda narra che, nella notte dei tempi, cioè parliamo di milioni di anni fa, un uomo solitario,né troppo uomo, né troppo bestia, se ne stava in riva al fiume per un tempo indefinito a scortecciare , intagliare e sagomare un tronco d’albero quando, all’improvviso, dal suo lavoro si stagliò , manco a dirlo, una sinuosa figura femminile.
Il solitario,positivamente attratto dall’ opera delle sue mani, la trovò talmente bella che se ne innamorò e giacque poi con lei.
Dall’ unione dei due nacque un primo figlio ma morì subito. E così accadde per il secondo.
Il terzo, invece, sopravvisse, e fu lui il capostipite dei Makonde.
E questo spiega perché per i Makonde, accanto a scene di vita quotidiana, nelle loro sculture privilegiano sempre la figura femminile.
La “madre” appunto di tutti i Makonde.
Presente anche e sopratutto nell’ujamà, quello che è il loro superbo albero genealogico, la loro tipica scultura in legno, dove figure maschili e femminili si uniscono in una danza complessa e misteriosa, avviluppandosi l’un l’altra in un unicum di rara bellezza e perfezione, se l’artista è davvero tale.
Marianna Micheluzzi
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